Capheus corre.
Corre tra i barbershop e le catene di lavanderie che servono tutti i giorni le stesse facce nere e stanche, tra i negozi di liquori ancora vuoti ma che a breve si riempiranno non appena finirà la giornata lavorativa.
Nell’aria si espande un beat martellante, un ritmo tribale che trasla questo piccolo frammento di universo in una diversa dimensione temporale, ci sono due Bronx ora.
Il primo vive giorno dopo giorno tra le grida, le scatarrate dei vecchi niggaz e i gospel delle ragazze svogliate che non vedono l’ora di cambiarsi per dimenarsi al club con le canzoni di Gloria Estefan o Donna Summer.
E poi c’è l’altro Bronx, quello che muore e rinasce ogni istante, dove la metrica trascende le forze della natura alterandole a suo piacimento, dove un uomo misterioso usa il suo dono, il dono di poter controllare il tempo mandando avanti, riavvolgendo e scratchando mentre un esercito di emissari adolescenti diffonde il verbo attraverso le casse di un logoro mangianastri Ghetto Blaster, formulando in preda ad un’estasi mistica delle liriche che esorcizzano paure, esaltano grandezze e millantano vittorie che diventano tangibili nel momento stesso in cui vengono proferite.
Capheus corre.
Attraversa la città a piedi, raggiunge la metropolitana mentre il rosso del tramonto lascia il passo al blu abissale, lui si fonde con esso.
Nessuno lo ferma, nessuno lo riconosce.
È lontano ormai eppure i tamburi riecheggiano nella sua testa mentre si addentra nelle viscere della terra.
L’obiettivo è lei: Manhattan! Lei che non lo aspetta ma lo sfida con quel ghigno al neon, lei che manda i suoi corteggiatori in uniforme blu a ricordargli che “Hey sweetie, I’m out of your league”, lei splendente in maniera uguale e contraria alla sua gal Aisha che forse lo attende a casa stanca non sapendo quando tornerà.
Se tornerà.
Capheus corre.
Vede tutto questo e tace, tace pur di non gridare, i piedi vanno da soli, la testa inserisce il pilota automatico.
Se iniziasse a pensare probabilmente esploderebbe, il silenzio assordante della sua vita lo ucciderebbe.
Non può fermarsi.
Capheus corre.
Manhattan lo accoglie con il suo abito splendente e lo sguardo spento delle modelle di playboy quando sono lontane dagli obiettivi e dalle feste, sorridono accanto a quel bastardo fortunato di Hugh Hefner per poi accigliarsi mentre vagano per la Mansion, trattenendosi però quando si ricordano il perché di tutto questo: i soldi, la “fama” e la possibilità di finire nel letto dell’Axl Rose o del quarterback dei Giants di turno.
Se poi non basta beh, la cocaina fa il resto.
Ma Capheus corre.
Vede i manifesti annunciare che il suo amico, o meglio ex amico, Curtis a breve combatterà per la difesa del titolo di campione dello stato di New York contro il polacco Satsky; altri annunciano che l’uomo conosciuto come K.O.S. si esibirà da qualche parte tra l’Upper East Side e Harlem, qualche pagliacciata per celebrare l’orgoglio nero senza però sporcarsi troppo andando nei quartieri in cui un bianco non entrerebbe mai eh.
Una volta erano suoi amici, prima di trovare la loro via di fuga e diventare qualcuno, prima di cogliere ogni occasione per ricordare “Nevah forget ya roots man, nevah” alla fine di ogni match solo per poi cambiare strada ogni volta che il loro sguardo rischia di incrociarsi con quello Capheus, prima di riempire i propri testi di rabbia e risentimento verso il sistema e la società bianca dalla come proprio attico a pochi passi da Times Square.
Ma Capheus corre.
È quasi arrivato al suo obiettivo, e sente il brivido lungo la schiena, respira a fondo, tira su la linguetta delle sue Nike-y ormai distrutte e inizia ad arrampicarsi facendo attenzione a non farsi notare, stavolta sta rischiando grosso.
Ma deve farlo.
Le scale a pioli, le pedane, i calcinacci che precipitano dalle impalcature si alternano e scandiscono il tempo mentre le gelide sferzate lo schiaffeggiano in viso, non basta il telone del cantiere a proteggerlo dalle raffiche invernali.
Ma Capheus corre.
È in cima, dall’alto vede la skyline prendere le sembianze di una ragazza che fuma distratta sdraiata su un divanetto, Manhattan sembra quasi implorarlo di nascosto come Bonnie Tyler quando grida “I’m Holding Out For A Hero”.
Ma Capheus non è un eroe.
Dall’alto vede le sagome eleganti camminare rapidamente come formiche impazzite, senza badare a nulla, ma d’altronde non è una novità.
Nessuna notizia quando Frank è stato pugnalato sette volte in un vicolo per il semplice fatto di aver indossato una maglia del colore sbagliato nella zona sbagliata, nessuno si stracciò le vesti quando la sua amica Norah è stata malmenata dagli uomini in divisa convinti che fosse una borseggiatrice.
Capheus è fermo.
Getta un occhio al suolo e capisce come è visto dagli altri, percepito ma non riconoscibile, lo spettro di se stesso ormai, non è riuscito ad accettare passivamente, non è riuscito a fuggire come hanno fatto i suoi “amici”, non è riuscito a continuare a vivere.
Capheus è abbandonato a se stesso.
Da se stesso.
Il tempo scorre e si ferma, scorre e si ferma ad ogni respiro.
Estrae dallo zaino un telone in grado di occupare l’intero volume anche se ripiegato più volte, lo spiega lentamente e lo fissa sull’estremità dell’edificio mostrandolo al pubblico ignaro.
Nonostante la distanza impedisca un contatto visivo o un riscontro auditivo soddisfacente Capheus è sicuro che nessuno se ne sia accorto, mentre l’aria viene spostata dai movimenti dell’oggetto le persone continuano imperterrite a camminare senza alzare gli occhi da terra.
Ma Capheus non se ne stupisce.
Capheus respira forte.
Capheus pensa ad Aisha, sa che lo tradisce.
Capheus pensa ai suoi amici lontani.
Capheus pensa agli amici persi.
Ma Capheus non è il ragazzo con lo stereo di una volta, Capheus ha rotto il ritmo e le parole non coincidono più con la musica.
Capheus salta.
Capheus vola.
Il terreno si avvicina a lui attimo dopo attimo.
Lancia uno sguardo al cantiere, ammirando la sua opera recitare:
Can You See Me Now?
Capheus chiude gli occhi.
Capheus vola.