“C’è di più” di Ilenia Matteucci – workshop 2016/2017

Identità.
Un paio di occhi. Color cioccolato, intensi. Vedo soltanto quelli e un microscopico lembo di pelle, il resto è coperto. Il resto è coperto da un velo nero, non vedo il volto della donna che ho davanti. Non so se le sue labbra siano sottili o carnose, non so se in realtà lei preferisca indossare il blu. So soltanto che è una donna, perché questa è l’unica definizione che quel velo lascia trasparire. Ai miei occhi questa persona si esaurisce in due parole: donna musulmana. Questo è ciò che appare.
Mi saluta, le rispondo e le sorrido. Forse lo fa anche lei di rimando. Inizia a raccontarmi la sua storia, in un italiano abbastanza buono.
La ascolto, sono pagata per questo, ma intanto penso. Penso che lei non è soltanto una donna di religione islamica, non si esaurisce lì, non può finire lì. Avrà delle passioni, dei libri che le piacciono, un gruppo musicale preferito. Non è soltanto il suo genere e la sua religione.
Continua a parlare, a raccontarmi ciò che le è accaduto. Continuo ad ascoltarla e più la ascolto più mi convinco che non sia soltanto ciò che appare. Lei non è soltanto ciò che appare, non può esserlo, perché se al suo posto ora ci fosse un’altra donna dello stesso peso e della stessa altezza sembrerebbero identiche pur essendo le persone più diverse del mondo. Non importa ciò che sembra, l’apparenza è un’ipocrita bugiarda, e soprattutto non dà spiegazioni esaustive. L’apparenza rende pressoché identiche persone che non lo sono, perché la realtà è che ci hanno mentito sin da bambini, quando a scuola ci costringevano a mettere il grembiule affinché non ci fossero differenze, sì, ci hanno mentito perché non siamo tutti uguali. Siamo tutti delle persone e ciò è fondamentale, ma l’uguaglianza finisce qui. Ognuno ha una propria identità, che è data da una serie infinita di fattori e che perciò ha miliardi di sfumature; non potrà mai esaurirsi in una semplice descrizione di ciò che è deducibile dall’apparenza, né tantomeno in un mestiere, o in una religione.
La suoneria di un telefono interrompe il parlare della donna e le mie riflessioni.
“Scusi avvocato, devo rispondere”, mi dice.
“Non si preoccupi, faccia pure.”
Inizia a parlare in una lingua che non conosco. Non riesco a comprendere nulla della sua conversazione, ma il suo tono è prima irritato per essere stata interrotta quando era a un appuntamento, poi preoccupato e infine amorevole. Una persona che varia il suo stato d’animo così frequentemente in un lasso di tempo tanto breve non può essere definita semplicemente “donna musulmana” come suggerisce il velo che indossa e come chiunque dall’esterno farebbe. È più semplice definire qualcuno in due parole: viviamo in una società nella quale c’è un’immagine, uno stereotipo per tutto, quindi nelle menti di ciascuno esiste una precisa corrispondenza di quello che significano le definizioni grossolane che i semi-sconosciuti ci affibbiano. Dopo qualche minuto attacca.
“Scusi, era mia figlia, ha avuto un problema.”
“Si figuri, immagino.”
Riprende a raccontarmi il motivo per cui si trova nel mio studio, e mentre rifletto prendo nota dei dettagli più salienti del suo caso. Dai fatti che mi sta narrando si evince che il suo comportamento è stato quello di una donna forte, coraggiosa e ribelle, niente che sia collegabile all’immagine che l’etichetta “donna musulmana” generalmente evoca nell’immaginario collettivo. Il suo comportamento, il suo carattere, la sua identità, sono il risultato di ciò che ama, dei luoghi che ha visitato, delle delusioni che ha sopportato, dei torti che ha subito e delle vittorie collezionate, degli esami che ha sostenuto e dell’esito che questi hanno avuto su di lei. È il risultato dei gesti che compie, tutti, dei libri che ha letto, degli abbracci che ha dato. Non bastano due parole per definire la sua identità, così come non bastano per definire quella di chiunque altro. L’identità è molto più di un’etichetta che il mondo ci ha cucito addosso, è un insieme di innumerevoli fattori, e ognuno ha la propria, nessun essere umano è uguale a un altro, né lo sarà mai. La parola “identità” ha sia il significato di “rapporto di esatta uguaglianza e coincidenza” che quello di “complesso di dati caratteristici e fondamentali che garantiscono l’autenticità” e con le etichette, così utilizzate per comprendersi più facilmente, si dà valore solo al primo, quando invece è il secondo a contare davvero.
Finisce di raccontare.
“Spero che lei possa aiutarmi” mi dice.
“Sicuramente! Mi porti il resto della documentazione in settimana, così ho modo di studiarla.”
“Certo. Beh, allora grazie e arrivederci.”
Ci stringiamo la mano. Guardo il display del mio iPhone, c’è un messaggio del mio prossimo cliente che mi avvisa che a causa di complicazioni non potrà venire. Colgo l’occasione per confermare la mia tesi.
“Signora, aspetti, le posso offrire una tazza di tè, prima che vada?”
“Ehm, certo, volentieri, grazie” mi risponde inaspettatamente.
“Fantastico” replico.
Mi guarda, esitante.
“Solo, le dispiace se mi tolgo il velo?”
“Io non l’ho mai indossato in vita mia, si figuri se mi dispiace che non lo indossi lei!”
Lo toglie e sorride. Sorrido di rimando. Ora vedo che ha pochi anni più di me, e che il suo volto dice molto più di quanto non mi aspettassi, e sicuramente non dice tutto.
C’è di più, c’è sempre di più.

“Giù il sipario” di Furio Duratorre – Workshop 2016/2017

781ad402e398e840a4926d738cbbed88

Sono stato nella sua testa, a contatto con i suoi pensieri, esposto incessantemente a ogni sua idea, teoria e considerazione: eppure, a stento posso dire di conoscere Fabrizio più di chiunque di voi. Se vi sembra assurdo, dovete solo ricordare che il buon Fabrizio Castelli non si è mai aperto molto con nessuno, eccetto rarissimi casi di confidenze con persone a lui molto care che ha scelto, curiosamente, di non rendere partecipi di questa confessione. Evidentemente non voleva allarmarli. Che pensiero gentile.

Un po’ paranoico, il nostro Fabrizio, eh. Così insicuro, così stretto nei suoi dubbi e nelle sue paure. Venti anni di pura ansia!, ma com’è possibile? Oh, andiamo, non fate così. So cosa state pensando, ma dovete ammettere ciò che sapete di lui e che non avete il coraggio di dire. Ma non vi sto biasimando: come potrei, del resto? Basta guardarlo! Fabrizio Castelli è di così poca presenza che a momenti si fa oscurare dalla sua stessa ombra. Una vita vissuta nel silenzio, c’è poco da fare. L’indifferenza è dura da sopportare per tutti, ma lui ci ha trovato una sicurezza – una garanzia, in un certo senso. Nell’indifferenza ci è cresciuto, ne conosce ogni forma e sfaccettatura. Sa bene cosa significa sentirsi lontani da tutto e tutti: ma la variazione di cui è più esperto è senz’altro quello smarrimento nel vedere due persone capirsi a vicenda senza parlarsi. Ma come fanno? A mancargli è proprio questa intesa con qualcuno, questa magia; questa intimità personale che culmina nel non detto – cosa che per lui ha dell’incredibile!  E da qui il sentirsi spaesato, il chiudersi in se stesso, la paura di anche solo disturbare qualcuno per rivolgergli una domanda: quel brancolare nel buio alla ricerca di risposte che la sua mente avrebbe doviziosamente trasformato in altre domande, in altri dubbi. Una pippa mentale con le gambe. Fabrizio Castelli è una fucina di punti interrogativi!

Mite; passivo, se volete, ma non per questo poco ambizioso. La vita ne ha, di senso dell’umorismo. Sognava la fama, Fabrizio – ma la fama… vera. Broadway, Hollywood, gli Oscar. Anderson, Ozpetek, Scorsese. Quella maledetta tartaruga, nella tristezza del suo guscio, voleva fare il culo a tutti quanti. Gli sarebbe bastato poco, almeno per cominciare. Pochissimo: buttarsi, come si suol dire, sciogliersi un po’. Ma poteva davvero permettersi di rischiare? Mai che avesse parlato del suo sogno con nessuno – mai che avesse avuto con nessuno una conversazione decente. Poteva convivere con la vergogna del fallimento? Poteva Fabrizio Castelli conquistare SE STESSO prima ancora del pubblico?

Povero diavolo. Non è solo il coraggio a mancargli, ma sono sicuro che avrebbe potuto finire diversamente. Eppure, per prendere quella decisione definitiva, ne ha avuto, di fegato. Da parte sua è stato un bello slancio, in tutti i sensi. E ora che finalmente il suo nome, Fabrizio Castelli, sarà stampato sui giornali, lui non ne saprà mai nulla. Non è incredibile? Ah, e se pensate di aiutarlo, non vi disturbate: state già leggendo, dopotutto, le parole di un uomo morto.

Cordialmente,

F. C.

“Le fate d’inverno” di Camilla Tarducci – Corso 2016/2017

IMG_8367

C’era una volta un villaggio nato sulla riva di un lago.

Il lago si chiamava Silenzio. Il nome del villaggio non viene più pronunciato.

Per tre quarti dei suoi confini era delimitato da una vasta foresta di aceri rossi e abeti che si estendeva per miglia in tutte le direzioni, e gli uomini erano in grado di capire che al di là della nebbia sorgevano montagne solo perché gli alberi risalivano le loro scarpate, tingendole di cremisi durante l’autunno. Gli abitanti del villaggio non sapevano che esistesse un mondo oltre quelle cime, né coloro che vivevano dall’altro lato erano a conoscenza di quel piccolo gruppo di case. Le uniche cose che gli uomini del lago conoscevano erano l’acqua, il cielo, il bosco e la roccia.

Poi nacque una bambina che conobbe molto altro.

I suoi capelli erano rossi come le bacche d’agrifoglio e il suo passo leggero come il respiro di un uccello.

Per il suo tredicesimo compleanno la madre le donò un’ocarina, e da quel momento non ci fu neanche una sera in cui la ragazza evitò di suonarla, facendo aleggiare fuori dalla finestra della sua camera melodie semplici e dolci, più spesso allegre che tristi; la gente alzava la testa e sorrideva, passando davanti a quella casa – e per molto tempo non prestarono attenzione alle piccole schegge di luce che balenavano sul davanzale mentre la ragazza suonava.

La stanza della bambina era piccola e dalle pareti di legno, con una sola finestra circolare; aveva un grande letto con una morbida coperta verde e uno scrittoio, una cassapanca e qualche scaffale. Molti dei suoi giocattoli erano riposti in angoli insoliti, in attesa che si decidesse del loro destino. Dopo aver cenato ed essersi lavata, la bambina si arrampicava sul materasso, socchiudeva la finestrella e, con i gomiti poggiati sul davanzale, si divertiva con l’ocarina.

Il suo compleanno cadeva in primavera, quindi la finestra era spalancata e il sole non era ancora tramontato quando la ragazza suonò per la prima volta.

All’inizio le scambiò per falene, attirate dalla luce nella sua camera, poi per bagliori del sole morente; ma quando si posarono tra le sue braccia e cominciarono a danzare, vide che in realtà erano fate. Sottili ed evanescenti come la fiamma di una candela, con ali purpuree di farfalla, volteggiavano nel vano della finestra apparendo e svanendo come raggi riflessi da uno specchio. Quando la ragazza, stupita, staccò le labbra dall’ocarina, le picchettarono le mani con i loro piedini, implorandola di continuare. E così, ogni sera, un corteo via via sempre più numeroso si radunò sul davanzale della bambina per ballare e giocare nei modi arcani e ineffabili delle creature del bosco.

Venne l’inverno, ma la ragazza cercava sempre di tenere aperto uno spiraglio per le sue fatine ad ogni tramonto. Il buio scendeva presto, e le donne che sull’uscio delle loro case richiamavano i bambini per la cena o aspettavano il ritorno dei mariti cominciarono a notare i fuochi fatui che vagolavano sotto il tetto dei loro vicini. Non ne fecero parola, tuttavia, fino all’anno successivo, quando la bambina compì quattordici anni.

Quel giorno abbandonò definitivamente i vestiti infantili e cominciò ad indossare gli abiti smessi di sua madre, imparò ad acconciare i capelli e ad atteggiarsi da signorina. Non amava unirsi alla compagnia delle sue coetanee, preferendo di gran lunga sgattaiolare nella foresta ad ogni occasione buona oppure passeggiare da sola per il villaggio, cantando a bassa voce: tutto questo non fece altro che accrescere le attenzioni rivolte a lei. Prima ancora del suo quindicesimo compleanno, ricevette già tre proposte di matrimonio. Ma lei non se ne curava: altre compagnie reclamavano la sua presenza.

Fu proprio in quell’anno, infatti, che le fate la condussero nel bosco per farla suonare per loro. All’epoca di sentieri ce n’erano ben pochi, solo quelli usati dai boscaioli e dai cacciatori, e nessuno di essi si addentrava mai nel fitto della foresta. Le fate le mostrarono una via fatta di fragole nascoste nel profondo del sottobosco, di tane di volpi e di macchie di funghi sugli aceri, una via tortuosa ma stranamente sgombra, come se gli alberi non osassero intralciare il cammino delle piccole creature.

Non c’era una radura, alla fine del sentiero, né una casina ricoperta di ortiche, ma solo una spaccatura nella terra provocata dal corso di un ruscello: tra le pietre umide e lisce e le felci ombrose si annidavano gli spiriti della foresta, dai colori molteplici e le ali traslucide, tutti con occhi neri come quelli dei corvi, tanto grandi da sporgere dal loro viso minuto. La bambina si accucciava ai piedi di un abete e cominciava a suonare l’ocarina, guardando le fate librarsi in volo sopra la sua testa e volteggiare seguendo la melodia. Dovevano esserci dei rituali ben precisi, ma lei non riusciva a comprenderli; la sola cosa che non poté sfuggirle fu l’apparizione del Re e della Regina delle fate.

Sembravano entrambi fatti d’oro puro e le loro ali erano piumate e aggraziate come quelle dei colibrì: danzavano al centro del corteo, che si disponeva in cerchi concentrici, ognuno dei quali ruotava secondo un senso e un ritmo diverso. Era ipnotico. La ragazza non riusciva mai a terminare le melodie che aveva in mente, perché le sue palpebre si facevano pesanti e i suoi pensieri sembravano inciampare l’uno sull’altro, muovendosi a rilento, finché la sua testa rossa non scivolava su un giaciglio di muschio, cedendo al sonno.

Risvegliandosi, vedeva sempre le fate intente in una concitata conversazione: le parole erano quasi indistinguibili le une dalle altre, tanto le loro voci sembravano un unico flusso di note limpide, come quelle prodotte dall’ocarina. La ragazza restava ad ascoltarle, un braccio piegato sotto la testa, domandandosi se la musica da lei composta avesse un qualche significato per quelle creature, come se si trattasse della loro lingua. Da piccola aveva provato a parlare con loro, ma non aveva mai ricevuto risposta. Adesso che si sentiva più adulta e sicura di sé provava a interloquire con qualche timida nota, cercando di comunicare. Allora le fate si azzittivano immediatamente, e restavano a fissarla con intensità.

Ma decisero di non esporre i segreti del loro mondo prima dell’arrivo dell’autunno, quando gli aceri incendiarono la foresta e le montagne con le loro foglie rosso cremisi e il cielo plumbeo cominciò a gravare sul lago come una minaccia. Fu nell’autunno dei suoi quattordici anni che la ragazza comprese tutto ciò che agli uomini non era dato comprendere, e apprese della nascita del cielo e del lago, e dei misteriosi tesori che essi custodivano; imparò il linguaggio delle rocce e degli alberi, imparò a domare gli orsi e i lupi e ad evocare il vento. Le fate erano sempre con lei, nascoste tra le sue trecce o nelle pieghe del suo vestito, e la consolavano quando suo padre la batteva e i paesani borbottavano oscuramente alle sue spalle.

L’inverno fu aspro e tenebroso. La neve cadde presto, costringendo gli uomini ad uscire nella bufera per finire di radunare le provviste prima che tutto il loro universo venisse sepolto da quella bianca coltre. Nel giro di una settimana divenne impossibile uscire di casa.

La ragazza sedeva in camera sua, lo sguardo rivolto alla finestra: le imposte erano congelate, ma lei non aveva il coraggio di chiedere l’aiuto di suo padre per aprirle. Li sentiva parlare, a volte, i suoi genitori e i rari visitatori che venivano per barattare le loro scarse risorse. Un inverno inusuale, diceva sua madre. Un inverno diabolico, correggevano gli ospiti. La ragazza studiava allo specchio nuovi modi per legarsi i capelli, in modo che le ciocche nascondessero i lividi sul suo viso. Non che avesse più molta importanza: i suoi pretendenti erano volati via con la stessa rapidità con cui una volta andavano ad affollare la sua porta. Forse sarebbe stato più saggio mostrare al paese che in qualche maniera stava pagando per le sue azioni. Alzò lo sguardo sulla fata seduta sulla cornice dello specchio, e lasciò che i capelli le ricadessero scompostamente sulle spalle.

La neve cominciò a sciogliersi, e il sole sembrava tornato ad emanare calore. La ragazza guardò gli uomini avviarsi a gruppi verso i campi e ne vide altri dirigersi verso il lago per testare il ghiaccio; si grattò nervosamente la nuca, non ancora abituata a sentire solo pochi ciuffi di capelli spazzarle il collo.

Presto avrebbe dovuto trovare nuove tane per nascondersi dai taglialegna e dai cacciatori.

Non era stato difficile andarsene. Una sera era uscita nella tormenta e nessuno l’aveva fermata, nessuno era corso a cercarla il mattino dopo – anche se lei sapeva che tutti l’avevano vista, dalle loro piccole finestre illuminate, percorrere la strada maestra e rifugiarsi nel bosco. Lei era felice, in fondo, e pensava che anche i suoi genitori sarebbero stati più felici così.

Vivere era semplice, quando si era amici delle fate. Non le mancava nulla. La nutrivano, cucivano per lei dei magnifici vestiti e la tenevano al riparo dal freddo e da tutto ciò che potesse ferirla. Il giorno del suo quindicesimo compleanno fu una giornata splendida, e suonò e ballò insieme alle fate per tutto il pomeriggio e alla sera salì su uno degli abeti più alti per vedere le stelle; ogni tanto lo sguardo le cadeva sul gruppetto di case sotto di lei, ma le fate non permettevano che si rattristasse, e le pungolavano il mento per farla tornare ad alzare gli occhi al cielo. Rise molto quel giorno, come non rideva da tempo.

I cacciatori giuravano di poter sentire quelle risate, di tanto in tanto, quando durante l’estate si inoltravano nel bosco in cerca di selvaggina.

E quell’anno furono costretti ad addentrarsi sempre di più: gli animali sembravano essere tutti scomparsi, migrati in zone sconosciute, gli antichi sentieri di caccia invasi dai rovi e dalle ortiche.

Un silenzio innaturale covava sopra le cime degli alberi; tutto era immobile.

La ragazza li osservava pensierosa, con le fate al suo fianco, mentre si spingevano oltre i confini da loro conosciuti, guidati dalla fame e dalla disperazione.

Mai una volta le creature le permisero di avvicinarsi per aiutarli a ritrovare la strada di casa. Così il villaggio perse una dozzina di uomini, e l’autunno incombeva. Le dispense contenevano appena qualche scoiattolo e qualche tordo; i campi sembravano ammorbati, con le loro spighe grigie e afflosciate; i semi negli orti si rifiutavano di germogliare; la frutta era senza polpa e ricoperta di bubboni mai visti.

La ragazza non si accorse di tutto questo. Le fate occupavano tutta la sua giornata, insegnandole infiniti segreti e raccontandole le storie del cosmo. La sera, però, si sentiva strana: come se ci fosse qualcosa che stava dimenticando, come se fosse in ritardo per un evento molto importante, come se avesse perso una cosa insostituibile. Tormentata e confusa da queste sensazioni, una notte uscì dal suo rifugio per incamminarsi verso il limitare della foresta. La via da lei percorsa era piana e piacevole come era sempre stata, priva delle asperità che ostacolavano i cacciatori.

Non c’erano fioche luci a ravvivare qua e là la facciata delle abitazioni, né sbuffi di fumo che uscivano dai comignoli: al chiarore incerto della luna di fine estate, l’intero villaggio pareva un ammasso roccioso, scuro e morto, freddo e dimenticato. La ragazza restò a guardarlo, seminascosta dietro l’ultimo albero prima del breve prato che conduceva al paese, oppressa da un’inspiegabile urgenza, dall’impressione che qualcuno la stesse aspettando con impazienza.

Indecisa sul da farsi, si sporse leggermente fuori dalla protezione del tronco e rimase in ascolto: nel silenzio implacabile della notte, sentì farsi strada un borbottio di fondo che andava aumentando, simile a quello di calabroni impazziti. Prima che potesse voltarsi, la investì come il cavallone di un’onda: uno sciame furente di fate, ronzante e rosso di collera, si abbatté su di lei, spintonandola indietro verso la foresta e non la mollò finché non fu ritornata nella sua tana.

La ragazza obbedì, vergognandosi anche un po’, perché sapeva che le creature volevano solo proteggerla. Per tutta la notte le sentì cicalare fuori dal suo nascondiglio, illuminato dal loro bagliore e risuonante del battere irritato delle loro ali.

Il mattino seguente, si convinse che era stato quello il motivo per cui aveva sognato tremendi e fragorosi incendi. Uscendo all’aria aperta, fu accolta da un piccolo corteo di lepri che superava il ruscello per raggiungere in gran fretta le zone più nascoste della foresta. Qualche minuto dopo le parve di vedere, in lontananza, le sagome scure di un branco di lupi marciare nella stessa direzione. Le sue amiche non erano nei paraggi, perciò la ragazza decise di andare a passeggiare per conto suo.

Fu il vento a raccontarle quello che era accaduto la notte precedente, bruciandole le narici con l’odore acre del fumo; arrampicata sui rami più alti vide gli alberi crollati e anneriti dal fuoco e, in lontananza, il viavai di persone sul prato – ora bruno e cinereo – che andavano a recuperare i cadaveri sparsi nel sottobosco.

Quella notte, le fate l’avevano salvata da una carneficina.

L’autunno fu breve come un sospiro. Il gelo si impossessò rapidamente della regione, serpeggiando dentro le case ancora appesantite dal lutto, facendo rabbrividire il lago con i suoi aliti sottili e radunando le nubi sopra le teste dei paesani, come un sinistro presagio. La ragazza, infagottata nelle pellicce e ben riparata nel suo nascondiglio, lo percepiva appena: ma qualcos’altro di ben più agghiacciante si faceva strada dentro di lei.

Non aveva più rivisto le fate dalla mattina dopo l’incendio. Non aveva più sentito un palpito di vita attorno a sé. Gli animali erano fuggiti, e ora la foresta era caduta in un sonno profondo. Ma più della solitudine e del silenzio, ciò che la turbava era la natura stessa di quell’inverno: anomalo come quello dell’anno precedente, mortifero come l’estate appena trascorsa e improvviso come l’incendio provocato dagli uomini.

Nelle lunghe ore di buio del suo letargo forzato, la ragazza ricongiunse tutti i pezzi del suo rompicapo.

La carestia aveva spinto gli uomini a cercarla, a profanare il territorio delle fate e a voler bruciare ciò che consideravano la causa delle loro disgrazie; l’inverno prematuro era la vendetta degli spiriti della foresta. Quanto sarebbe durato, non osava prevederlo. Per la prima volta da quando le fate erano apparse davanti a lei, la ragazza cominciò ad avere paura.

I giorni erano brevi e grigi, stanche ombre si trascinavano davanti alla sua tana, bagliori pallidi sembravano fiorire nel sottobosco come la rugiada al mattino e saturare l’aria greve e affilata come una ghigliottina; le notti erano simili all’infanzia del mondo, primordiali, eterne, scevre di suono e luce, fredde e ottuse.

La ragazza si rannicchiò in se stessa come un fiore, e attese.

Fu la luce a svegliarla – non quella del fuoco, non quella della luna, ma quella cerea del sole invernale, una piccola moneta che riluceva tra la foschia e le chiome degli abeti. Qualcuno doveva essere entrato nel suo rifugio, per far sì che quel chiarore la raggiungesse.

La giovane si alzò a fatica sui gomiti, intorpidita e intralciata dalle pellicce, e si ritrovò a guardare le sue vecchie amiche, tornate da lei dopo lunghi mesi, tutte graziosamente in fila davanti ai suoi occhi. Scintillavano festosamente, i corpicini color ghiaccio e le ali di cristallo, gli occhi rossi che parevano emanare calore. Al centro stavano il Re e la Regina, dorati e silenti; la presero per una mano ciascuno e la invitarono ad uscire all’aperto.

Nulla sembrava cambiato da quando era scesa in letargo, eppure alla luce del sole la neve non sembrava una soffocante minaccia, il vento era sopportabile, il silenzio era spezzato dal frinire di mille ali che battevano in sintonia. La piccola corte la condusse verso il nucleo del regno, la spaccatura nella terra dove ora il fiumiciattolo era del tutto gelato e le felci quasi sommerse dalla neve.

Allora la ragazza capì: era il giorno del suo compleanno; la primavera era infine giunta. Presto sarebbe ritornato il caldo, e la vita, i colori, i suoni.

La coppia reale aprì le danze, volteggiando sopra il rivo con una grazia che non poteva che commuovere. La ragazza ripescò la sua ocarina tra gli strati di vesti e cominciò a suonare e battere i piedi a tempo, riscaldandosi mano a mano. Il resto delle fate si unì alla festa, e nel giro di pochi minuti l’intero bosco brillò come una gemma; non aveva mai visto così tanti spiriti tutti insieme, tutti che ballavano intorno a lei quasi volessero stringerla in un abbraccio. Così suonò e suonò, e la notte scese attorno a loro senza trovarli più stanchi o meno felici.

Il mattino seguente il sole squarciò di nuovo la foschia, si fece strada tra i rami rinsecchiti e infine toccò il suolo, la lastra di ghiaccio che un tempo era un ruscello.

I capelli rossi della ragazza sembrarono prendere fuoco a quella carezza; la pelle, pesta, cascante, raggrinzita come un frutto marcio ancora riluceva. Il suo petto ebbe uno spasmo: dalle cavità delle orbite uscirono il Re e la Regina, splendenti come dèi, e lentamente volarono verso il cielo. Qualche attimo dopo, una giovane fata riemerse dalle sue labbra socchiuse, si arrampicò sul suo viso e raggiunse il gruppo che la stava aspettando appollaiato sulla fronte della giovane. Si librarono in fretta con un fremito di risolini, diretti al villaggio dove avrebbero cercato la loro nuova amica.

Quando il ghiaccio si sciolse, il fiume si prese il corpo della ragazza.

Gli uomini dissero che non c’era mai stata una primavera tanto rigogliosa come in quell’anno.

“Il giardino” di Diletta Bellotti – Workshop 2016/2017

51893082dcbeea574826de8be46b8b92

Io non sono un giardino, ma una casa che da su di un giardino. Questo perché non vorrei mai vivere dentro di me ogni momento della mia vita, vorrei potermene andare e osservarmi da fuori, esitare sull’uscio e lasciare le erbaccie crescere per un po’. Dalla finestra della mia casa vedo il mio giardino, ne vedo gli insetti e le piante, gli animali notturni e quelli diurni, i passanti che sbirciano ma non osano entrare.

La mia casa è la mia casa di Berlino, esattamente com’è, con tutta una parete di finestre, all’undicisemo piano, le pareti scrostrate dalla carta da parati, la luce grigia. C’è solo il letto però: niente divano ad elle con le brasche di sigarette, niente TV nascosta sotto un telo per rispettare il feng-shui, niente quadri di renne con lucine, niente arnesi da cucina, niente fornelli elettrici, neanche il bagno e la cabina armadio. Solo il letto, bianco, gigantesco, morbidissimo con i suoi cassettoni incastonati nella struttura, e le tende, bianche e il parquet, caldo. Nei cassettoni tengo delle piante, quando esco apro completamente i cassettoni, cosicchè possano prendere aria. Mi metto le scarpe, un giaccone, una sciarpa rossa che ho comprato ad un Charity Shop a Londra. Ho solo quei vestiti in casa, non so perchè. Torno indietro ho dimenticato qualcosa: i cassettoni vanno aperti. Li spalanco con forza e annaffio un po’ le piante, esagero come al solito, straborda dell’acqua, ma pulirò dopo. Esco.

Scendo undici piani, pestando forte i piedi, corro per attraversare la strada e dall’altra parte c’è il parco, gigantesco. Sopra passa un treno, che sembra volare. In questo parco c’è un giardino, solo mio, almeno così credo, perchè non ci ho mai visto nessun altro. Prima di varcare la soglia inizio a sentire il collo pungermi dolcemente. Mi prefiguro il tocco del prato, ispiro, chiudo gli occhi per un attimo. Cerco di immaginarmi com’è il giardino, non riesco a ricordarlo, eppure l’avevo guardato poco prima, dalla finestra della mia camera e non ero rimasta sorpresa. Ora ero lì, sull’uscio e non ne ricordavo le forme. Non sentivo alcun odore, alcun rumore. Chiudo gli occhi con più forza, come a voler spingere con forza la porta della mia memoria. Cerco un ricordo autentico, estrapolato dalla mia immaginazione (è lì che vive il mio giardino), ma riesco solo a pensare a luoghi già visti. La mia immaginazione è il mio passato. Non c’è niente’altro.

Non voglio aprire gli occhi perchè so che non vedrò niente, il mio giardino non esiste e anche quando faccio i primi passi verso l’interno non mi pare di schiacciare il prato e i fiori, ma di camminare solo sopra i miei piedi, come se i miei piedi fossero le caviglie e i piedi fossero il terreno. Ho paura e mi inizia a girare la testa, voglio aprire gli occhi ma continuo a non farlo. Voglio sedermi e non riesco a piegare le gambe, continuo a camminare più cautamente. Non sentire nessun rumore mi distruba, mi innervosisce profondamente. Tiro fuori dalla tasca il telefono e le cuffiette, spingo play. Con gli occhi chiusi. Parte 1979 dei Deru. Sono passata dall’odiare il rumore ad odiare il silenzio, in un battito d’ali.

Ritorno dentro la mia mente, cerco di ricordarmi il giardino, inizio ad attingere a falsi ricordi, inizio a costruire intorno a me l’esterno del Sisyphos, la sua barca arenata, i suoi funghi gianteschi, le sue amache, la sua cabina per i massaggi nei giorni d’estate, il suo camioncino Volkswagen senza ruote con gli spacciatori dentro. Ma io non sono lì, e lo so. Non posso essere lì, perchè quel posto esiste. Mi spavento. Cambia musica, credo sia Faith in Strangers di Andy Stott. Ci sono delle parole mischiate all’elettronica, poche, ma ci sono. Mi infastidiscono, la voce è un rumore che m’infastidisce. Cancello il Sisyphos con un’ondata di gesso, torna tutto bianco candido, inodore. Sorrido impercettibilmente. Ma lo percepisco perchè sono proprio io ad aver sorriso, ho tirato un po’ le guance, l’ho sentito. Capisco che non vedrò il giardino se sono nel giardino, o meglio, non riuscirò a vedere il giardino se m’immaginerò di essere nel giardino. Devo guardare il giardino immaginandomi d’essere a casa. Devo immaginarmi il giardino attraverso uno vetro sporco.

Lo vedo finalmente: color seppia. E’ un giardino arido, con un ulivo sulla sinistra, è circondato da un recinto di pietre basse e scure. L’ulivo è secco e giovane, allungo lo sguardo e noto che il giardino è circondato da piante di rosmarino. Profumano. Si estendono finchè il mio occhio vede.

Sotto l’ulivo ci sono io, ho forse dodici anni e sono con una bambina bionda e cicciottella. Io sono anoressica e scurissima, indosso una cavigliera al collo. Io voglio lavorare la terra, piantarci dei bei fiori. E’ tutto color seppia e polveroso. L’altra bambina non vuole sporcarsi, ma mi asseconda comunque un po’ distrattamente. Una voce fuori campo ci dice che la terra è troppo arida per poterla coltivare. Ci dice che stiamo perdendo tempo. Io continuo ad scavare con le mani, un po’ come faceva Rosso Malpelo in quel racconto che avevo letto.

“Selfie” di Federico Maccheroni – Workshop 2016/2017

lollllk

Era una gioia ricevere notifiche. Era una gioia speciale vedere la nuvoletta rossa della notifica nascere e gonfiarsi sulla schermata blu della homepage. Anche il suono che l’accompagnava era un’estasi per l’udito, somigliava alle esalazioni che emettono le bollicine di plastica dei fogli da imballaggio quando le scoppi. ‘Pop’. Erano pochi minuti che aveva postato la sua foto e già aveva ricevuto una decina di ‘mi piace’ ognuno accompagnato da una leggera accelerazione del battito che gli faceva martellare il sangue contro le tempie. Guardò il suo riflesso alla finestra e ammiccò a sé stesso compiaciuto, nonostante fosse pieno giorno teneva le tapparelle abbassate per via della luce accecante che rifletteva sullo schermo. Aveva progettato da tempo di cambiare la foto del suo profilo sul social network più famoso del mondo. Era un selfie,un autoritratto scattato con il suo cellulare mentre stava prendendo il sole al mare. La scelta era stata difficile, solo le giuste modifiche alla luce che rendevano la sua pelle perfetta e il suo sorriso più luminoso lo convinsero che era quella giusta. Aggiornò nuovamente la pagina del sito web per vedere se avesse ricevuto nuove notifiche, ma invece che caricarsi, la pagina lo informava che internet era assente. Un senso di stupore misto a fastidio lo colpirono mentre cercava di capire cosa non andasse. Effettivamente la rete wi-fi era saltata. ‘Ho staccato il modem per sostituirlo con quello nuovo!’ gridò suo padre dalla stanza accanto. Immediatamente tirò fuori il suo cellulare ricordandosi solo una volta tentato di connettersi con il dispositivo che aveva terminato i dati della sua connessione. Era una congiura. Suo padre proprio quel giorno aveva dovuto scegliere per cambiare il modem, non capiva quanto fosse importate per lui capire se la foto avesse riscosso successo o meno?  Cominciò nervosamente a rigirarsi il telefono tra le mani, lo sbloccava, scorreva le foto e lo bloccava per poi ricominciare da capo. Non aveva neanche internet per chiedere a qualche amico opinioni sulla foto. Avrebbe potuto usare un messaggio normale ma ormai solo i nonni li usavano e non voleva gravare sui suoi amici facendogli spendere quei 15 centesimi di risposta. Fece un respiro profondo e decise di reagire \cercando di distrarsi. Prese il suo libro di matematica e provò a fare qualche esercizio ma senza successo. Si ritrovava puntualmente senza rendersene conto ad aggiornare la pagina web con la speranza che riprendesse vita. Decise che forse era il caso di uscire, tirò su la serranda per vedere che tempo facesse. Fuori era un pomeriggio assolato e per essere novembre inoltrato faceva caldo. Sotto casa sua si apriva un grande parco circondato da palazzoni costruiti negli anni settanta. La sua attenzione fu catturata da due ragazzi che stavano sdraiati abbracciati tra l’erba alta all’ombra di un albero che aveva le foglie che passavano dal  giallo all’arancio con una strana armonia cromatica che diffondeva un senso di tranquillità. Si concentrò nuovamente sul suo riflesso sul vetro, ora meno definito visto che aveva alzato la persiana. Si studiò il volto, prese il cellulare e lo confrontò con  la foto di lui al mare. Nella foto era più magro, aveva dei colori più chiari e un’espressione innaturale che non era sua. Si domandò se la gente vedendolo per strada lo avrebbe mai associato a quella persona ritratta nella foto se non ci fosse stato il suo nome accanto. Si tastò il volto come usano fare le persone cieche per identificare le persone che hanno di fronte, e cercò di capire quale delle due immagini di sé fosse più veritiera, quale fosse veramente lui. Una luce rossa arancio cominciò a filtrare dalla finestra  e un senso di malinconia lo prese. Non sapeva se fosse per via della consapevolezza del tempo che passava o per via di quel nodo allo stomaco causato da quella incertezza sulla sua identità. Allo stesso tempo però non poteva che restare affascinato dai colori del cielo che sembrava stesse prendendo fuoco. Un suono familiare lo riportò alla realtà. ‘Pop’. Era ripartito internet. Abbassò nuovamente le serrande e tornò ad aggiornare la sua pagina web.

Federico Maccheroni

 

“Anatomia di un corpo nelle varie ore del giorno” di Federica Patanè – Workshop 2016/2017

Era un ragazzo organizzato. Abituato a dare un senso ad ogni ora della giornata. Nemmeno un minuto doveva essere sprecato. E aveva l’abitudine di controllare la vita degli altri, allo stesso modo in cui controllava la propria.

Lei era il suo esatto contrario. Distratta, ipercinetica, ma quel tipo di ipercinetica che di colpo si stanca e si trascina con ebete fascinazione per tutte quelle cose che i più considerano banali, come i bambini. Era matta da legare, per certi versi, non i suoi.

Eppure fingeva. Fingeva per lui una normalità che non le apparteneva.

E lui era per lei come le sagome al poligono, che fanno male solo quando diventano uomini veri.

Il suo corpo cambiava di ora in ora.

Lui la osservava, e ogni volta gli sembrava diversa.

Alle sette di mattina era una bambina.

Allora la lasciava dormire, come si fa con i bambini. Lasciava il letto in punta di piedi, nella luce cerulea della stanza, prendeva delicatamente le chiavi tra pollice ed indice, le sollevava, e il tintinnio che producevano minacciava ogni volta di mettere in moto una serie di eventi inaspettata, ma fortunatamente lei non si svegliava mai.

Saliva in macchina, sistemava lo specchietto retrovisore, sistemava la cravatta, metteva in moto, correva lungo le curve, salutava i semafori.

Aveva il suo lavoro e la sua vita e i suoi viaggi, tre sostantivi intercambiabili.

Nel frattempo lei si svegliava.

Durante la giornata si ricuciva le ferite, ricamandoci sopra anche bellissimi scenari, che puntualmente disfava, e così continuava a scucire i punti e poi nuovamente ricucirli e poi ancora scucirli.

Alle nove di sera era una donna.

Allora lui la portava a cena fuori, per sfoggiarne la bellezza.

<< Facciamo un gioco >> disse lei. << Ogni volta che ci vedremo, ti darò una parte di me. Ovviamente certe parti sono ancora blindate, va da sé che saranno le ultime. Ci stai? >>

<< Non sarà difficile, ricomporre i pezzi, alla fine? >>

<< I tuoi, forse. Non i miei. >>

Poi un giorno pianse, alle due di notte, pianse come una bambina nell’ora in cui era sempre stata una puttana.

Allora lui seppe di aver sbagliato tutto.

Guardò le sue mappe, appese al muro dietro le spalle curve di lei. Tentò di focalizzare i pensieri sul prossimo viaggio che avrebbe organizzato. Ma i confini gli apparivano sfumati, evanescenti nella sua mente.

Per la prima volta si sentiva come straniero in terra di nessuno.

 

“Spacelapse” di Edoardo Santarsiero – Workshop 2016/2017

Capheus corre.

Corre tra i barbershop e le catene di lavanderie che servono tutti i giorni le stesse facce nere e stanche, tra i negozi di liquori ancora vuoti ma che a breve si riempiranno non appena finirà la giornata lavorativa.

Nell’aria si espande un beat martellante, un ritmo tribale che trasla questo piccolo frammento di universo in una diversa dimensione temporale, ci sono due Bronx ora.

Il primo vive giorno dopo giorno tra le grida, le scatarrate dei vecchi niggaz e i gospel delle ragazze svogliate che non vedono l’ora di cambiarsi per dimenarsi al club con le canzoni di Gloria Estefan o Donna Summer.

E poi c’è l’altro Bronx, quello che muore e rinasce ogni istante, dove la metrica trascende le forze della natura alterandole a suo piacimento, dove un uomo misterioso usa il suo dono, il dono di poter controllare il tempo mandando avanti, riavvolgendo e scratchando mentre un esercito di emissari adolescenti diffonde il verbo attraverso le casse di un logoro mangianastri Ghetto Blaster, formulando in preda ad un’estasi mistica delle liriche che esorcizzano paure, esaltano grandezze e millantano vittorie che diventano tangibili nel momento stesso in cui vengono proferite.

Capheus corre.

Attraversa la città a piedi, raggiunge la metropolitana mentre il rosso del tramonto lascia il passo al blu abissale, lui si fonde con esso.

Nessuno lo ferma, nessuno lo riconosce.

È lontano ormai eppure i tamburi riecheggiano nella sua testa mentre si addentra nelle viscere della terra.

L’obiettivo è lei: Manhattan! Lei che non lo aspetta ma lo sfida con quel ghigno al neon, lei che manda i suoi corteggiatori in uniforme blu a ricordargli che “Hey sweetie, I’m out of your league”, lei splendente in maniera uguale e contraria alla sua gal Aisha che forse lo attende a casa stanca non sapendo quando tornerà.

Se tornerà.

Capheus corre.

Vede tutto questo e tace, tace pur di non gridare, i piedi vanno da soli, la testa inserisce il pilota automatico.

Se iniziasse a pensare probabilmente esploderebbe, il silenzio assordante della sua vita lo ucciderebbe.

Non può fermarsi.

Capheus corre.

Manhattan lo accoglie con il suo abito splendente e lo sguardo spento delle modelle di playboy quando sono lontane dagli obiettivi e dalle feste, sorridono accanto a quel bastardo fortunato di Hugh Hefner per poi accigliarsi mentre vagano per la Mansion, trattenendosi però quando si ricordano il perché di tutto questo: i soldi, la “fama” e la possibilità di finire nel letto dell’Axl Rose o del quarterback dei Giants di turno.

Se poi non basta beh, la cocaina fa il resto.

Ma Capheus corre.

Vede i manifesti annunciare che il suo amico, o meglio ex amico, Curtis a breve combatterà per la difesa del titolo di campione dello stato di New York contro il polacco Satsky; altri annunciano che l’uomo conosciuto come K.O.S. si esibirà da qualche parte tra l’Upper East Side e Harlem, qualche pagliacciata per celebrare l’orgoglio nero senza però sporcarsi troppo andando nei quartieri in cui un bianco non entrerebbe mai eh.

Una volta erano suoi amici, prima di trovare la loro via di fuga e diventare qualcuno, prima di cogliere ogni occasione per ricordare “Nevah forget ya roots man, nevah” alla fine di ogni match solo per poi cambiare strada ogni volta che il loro sguardo rischia di incrociarsi con quello Capheus, prima di riempire i propri testi di rabbia e risentimento verso il sistema e la società bianca dalla come  proprio attico a pochi passi da Times Square.

Ma Capheus corre.

È quasi arrivato al suo obiettivo, e sente il brivido lungo la schiena, respira a fondo, tira su la linguetta delle sue Nike-y ormai distrutte e inizia ad arrampicarsi facendo attenzione a non farsi notare, stavolta sta rischiando grosso.

Ma deve farlo.

Le scale a pioli, le pedane, i calcinacci che precipitano dalle impalcature si alternano e scandiscono il tempo mentre le gelide sferzate lo schiaffeggiano in viso, non basta il telone del cantiere a proteggerlo dalle raffiche invernali.

Ma Capheus corre.

È in cima, dall’alto vede la skyline prendere le sembianze di una ragazza che fuma distratta sdraiata su un divanetto, Manhattan sembra quasi implorarlo di nascosto come Bonnie Tyler quando grida “I’m Holding Out For A Hero”.

Ma Capheus non è un eroe.

Dall’alto vede le sagome eleganti camminare rapidamente come formiche impazzite, senza badare a nulla, ma d’altronde non è una novità.

Nessuna notizia quando Frank è stato pugnalato sette volte in un vicolo per il semplice fatto di aver indossato una maglia del colore sbagliato nella zona sbagliata, nessuno si stracciò le vesti quando la sua amica Norah è stata malmenata dagli uomini in divisa convinti che fosse una borseggiatrice.

Capheus è fermo.

Getta un occhio al suolo e capisce come è visto dagli altri, percepito ma non riconoscibile, lo spettro di se stesso ormai, non è riuscito ad accettare passivamente, non è riuscito a fuggire come hanno fatto i suoi “amici”, non è riuscito a continuare a vivere.

Capheus è abbandonato a se stesso.

Da se stesso.

Il tempo scorre e si ferma, scorre e si ferma ad ogni respiro.

Estrae dallo zaino un telone in grado di occupare l’intero volume anche se ripiegato più volte, lo spiega lentamente e lo fissa sull’estremità dell’edificio mostrandolo al pubblico ignaro.

Nonostante la distanza impedisca un contatto visivo o un riscontro auditivo soddisfacente Capheus è sicuro che nessuno se ne sia accorto, mentre l’aria viene spostata dai movimenti dell’oggetto le persone continuano imperterrite a camminare senza alzare gli occhi da terra.

Ma Capheus non se ne stupisce.

Capheus respira forte.

Capheus pensa ad Aisha, sa che lo tradisce.

Capheus pensa ai suoi amici lontani.

Capheus pensa agli amici persi.

Ma Capheus non è il ragazzo con lo stereo di una volta, Capheus ha rotto il ritmo e le parole non coincidono più con la musica.

Capheus salta.

Capheus vola.

Il terreno si avvicina a lui attimo dopo attimo.

Lancia uno sguardo al cantiere, ammirando la sua opera recitare:

Can You See Me Now?

Capheus chiude gli occhi.

Capheus vola.

“Caduta Libera” di Marianna Marzano – Workshop 2016/2017

 “Questa è città è dannatamente bella” pensai. Guardavo Roma dal finestrino con aria sognante e mi sentivo come dentro un film. Una frenata brusca dell’autobus mi riportò alla realtà: ero in ritardo. Scesi velocemente dall’autobus. Sentivo l’adrenalina crescere ad ogni passo: era il grande giorno. Stavo per incontrare un cliente importante, un pezzo grosso: erano mesi che bramavo una promozione e quell’incontro era la mia occasione.

Iniziai a correre. Mi inoltrai in una via a caso sperando di ricordarmi la strada. Con il tipico ed incosciente ottimismo dei ritardatari continuavo a ripetermi che ce l’avrei fatta, che sarei riuscita ad arrivare in tempo. Correvo all’impazzata e la gente per strada mi guardava incuriosita, forse chiedendosi quale fosse il motivo talmente importante in grado di farmi correre in quel modo.

Me lo chiesi anche io. Qual’ era il motivo? Da mesi correvo dietro a quella promozione. La verità è che dovevo a tutti costi dimostrare a me stessa di potercela fare. Lo facevo da sempre: ero sempre alla ricerca di qualcosa da raggiungere per affermarmi, per poter dire di essere qualcuno. La laurea, un concorso, una promozione: ogni volta non era mai abbastanza, ogni volta raggiunto un obiettivo ne trovavo un altro e lo inseguivo con altrettanto affanno. A volte mi sembrava di correre e non arrivare mai. Mi sembrava di inseguire la vita e quando pensavo di averla raggiunta, afferrata, capita, lei invece era già ripartita.

Mi chiesi dov’ero io in tutto questo. Mi chiesi se potevo dire di conoscere davvero quella persona che guardavo ogni mattina allo specchio. Mi chiesi se mi fossi mai fermata ad ascoltare la mia voce, quella vera, quella profonda. La voce dei i desideri, quella che ti sussurra piano cosa vuoi veramente e per ascoltarla devi fermarti un attimo e abbassare il rumore del mondo. Oltre i premi, gli attestati e riconoscimenti, chi ero io? La verità è che per essere qualcuno mi ero dimenticata di essere.

Successe tutto molto velocemente. Persa nei miei pensieri non mi ero accorta del gradino. Mi ritrovai a terra e sentii la sensazione dei sampietrini freddi sul viso.

“Tutto bene, signorina?” un anziano signore mi si avvicinò preoccupato tendendomi una mano.

“Benissimo, grazie!” dissi con finta convinzione mettendomi in piedi. Gli sorrisi forzatamente e lui se ne andò confuso. Mi rialzai in fretta, pronta a proseguire la mia corsa, ma un dolore alla caviglia mi costrinse a fermarmi. Mi appoggiai al muro e mi arresi.

Mi guardai intorno: ero in una piazza piuttosto piccola, al centro c’era una fontana. Non era maestosa né di una bellezza appariscente, ma possedeva una grazia speciale. La base era composta di conchiglie, mentre degli angeli sorreggevano la vasca contornata da piccole tartarughe. Sentivo nel silenzio il rumore dell’acqua che sgorgava veloce. Mi resi conto di non aver la più pallida idea di dove fossi, nonostante conoscessi piuttosto bene quella zona.

Improvvisamente un profumò mi rapì. Mi lasciai trasportare da quell’ odore inebriante e mille ricordi riaffiorarono nella mia mente. “Cornetti appena fatti” pensai sorridendo tra me e me. Il mio sguardò si posò sulla visuale della piazza. Vidi le persone affrettarsi per cominciare la loro giornata: mi divertii ad immaginare le loro vite, ipotizzare su dove fossero diretti e se ci fosse qualcuno ad aspettarli. Vidi un barbone avvicinarsi alla spazzatura alla ricerca della sua colazione. Una giovane ragazza con un passeggino mi passò accanto. Guardai al suo interno e incrociai lo sguardo di un bambino. Mi fissò intensamente, come solo i bambini sanno fare. Mi guardò fino in fondo senza paura, senza maschere, senza protezioni. Mi fissò con un’intensità tale che mi sentii come se mi potesse leggere dentro. Mi sentii come se quello sguardo mi stesse restituendo qualcosa che avevo perso.

Immaginai che il mio cliente fosse ormai andato via da un pezzo, ma non mi importava. Era una meravigliosa mattina di novembre. L’aria era frizzante e mi stuzzicava la pelle. Una luce dorata illuminava i palazzi rendendoli vivi e sensuali. Chiusi gli occhi e sentii il tepore caldo del sole sulla pelle. Mi ricordai di essere, e di esserci.

All’improvviso mi tornò in mente quella frase: “E’ il viaggio che conta, non la destinazione”. Respirai forte e l’aria fredda mi entrò nei polmoni. Mi sentii viva. “Buon viaggio” augurai a me stessa.

 

 

Marianna Marzano

 

“Foglio bianco” di Margherita Curti – Workshop 2016/2017

Il vento, pungente, sferzava il piccolo viso tondo di Lea, che imperterrita ignorava gli avvertimenti della madre e continuava a sporgere la testa dalla ringhiera gelida. La madre la reggeva con forza per un braccio, tirandola a sé e ripetendole: “Non guardare giù!”, come se Lea avesse paura del vuoto, dell’altezza, o dell’oceano nero come la pece che ruggiva contro le pareti della nave. Ma Lea non aveva paura di tutto questo, e perciò continuava a guardare giù piena di curiosità. Suo padre probabilmente non si sarebbe preoccupato tanto, ma del resto Lea non ne era più tanto sicura. Non lo vedeva da più di un anno, ormai, ma la mamma diceva sempre a lei e a Michael che prima o poi lo avrebbero raggiunto “dall’altra parte”. Lea aveva dovuto salutare tutte le amiche a scuola dicendo loro che non sapeva quando sarebbe tornata, e ricordava perfettamente lo sguardo strano che le aveva rivolto la maestra quando se n’era andata, come se sapesse benissimo dove erano diretti lei, la madre e il fratello e capisse perfettamente la situazione. In realtà, sembrava anche che sapesse qualcosa che Lea ignorava, ma la bambina non si era fatta troppe domande. “Su, scostati dalla ringhiera. Andiamo a vedere dove diamine si è cacciato tuo fratello.”, disse improvvisamente la madre, parlando in yiddish e tirandola via con sé. Lea la seguì controvoglia lungo il ponte della nave, dove decine di uomini e donne se ne stavano appoggiati al bordo, a guardare l’oceano e l’orizzonte che, quasi spaventoso, si estendeva, vuoto, a ogni lato della nave. Scivolando di tanto in tanto sul legno bagnato, Lea urtava senza volerlo alcuni di loro, che le rivolgevano uno sguardo infastidito per poi tornare a ignorarla e a guardare lontano.

La madre di Lea mollò improvvisamente la presa sul suo braccio per correre dietro a una scialuppa, dove Michael si era nascosto per tirare sassolini al di là della ringhiera.  “Oyfhem! Oyfhem, shmo!” iniziò a gridare, incurante degli sguardi curiosi degli altri passeggeri, tirando il figlio per un braccio e portandolo in un angolo per sgridarlo come si deve. Sembrava quasi di stare a casa, a Varsavia, quando  dopo cena Michael veniva privato della sua porzione di lekach come punizione per aver marinato la scuola, ed era costretto a salire in camera sua senza fiatare, mentre Lea mangiava la sua fetta di torta al miele con uno strano senso di colpa.

Ad un tratto, Lea si accorse che una bambina con gli occhi chiari la stava guardando con insistenza da chissà quanto tempo. Era seduta su una panca di legno, lì sul ponte, e si reggeva ai bordi come terrorizzata all’idea di scendere e avvicinarsi al parapetto.

“Ciao! Vuoi venire a giocare con me?” le chiese Lea, parlando tedesco.  Qualcosa le diceva che la bambina avrebbe capito; forse, il fatto che le ricordava la sua amica Anastazia, con quei capelli biondi un po’ arruffati, e quell’aria guardinga e sospettosa. La bambina continuò a fissare Lea, come riflettendo se valesse la pena o meno risponderle. “No. Mia mamma non vuole che mi allontani dalla panchina. Dice che cadrò in acqua e lei andrà a New York senza di me.”, rispose lentamente, in tedesco. “Capisco.”, disse Lea senza nascondere la sua delusione. La bambina la squadrava in silenzio. “Che strani i tuoi capelli, chi te li ha pettinati cosi?”, le chiese improvvisamente. Lea si toccò le trecce castane. “Queste me le fa mia madre. Dice che una bambina come me deve portare le trecce.” “Come te? Che vuol dire come te?” Lea tacque un attimo, presa in contropiede. “Come me e basta!” replicò un po’ indispettita. Poi saltò a sedere sulla panchina, accanto alla bambina bionda. “Sei contenta di andare a New York?” le chiese, indicando con un cenno del capo l’orizzonte sconfinato. “No! La odio, la odio, la odio! Volevo restare a casa e andare a scuola lì con le mie amiche. Non conosco nessuno a New York.”. Lea sussultò, ricordandosi di colpo che neanche lei conosceva nessuno, e che non sapeva quando avrebbe rivisto Anastazia e le altre bambine. “E da dove vieni?” chiese Lea. “Dresda.”, rispose la bambina bionda con una punta di malinconia. “Io li odio, i miei genitori. Mi hanno portato via tutto. Adesso non ho più niente.”, aggiunse. Lea avvertiva sempre di più il peso delle sue parole. E lei? Che cosa aveva lei, ora? La madre aveva costretto lei e Michael a buttare via praticamente tutti i giocattoli che avevano, perché non potevano portarli via in valigia. L’aveva costretta a lasciare a Varsavia molti dei suoi abiti, che erano stati regalati a una cugina lontana perché a New York le bambine si vestono diversamente, e Lea avrebbe dato troppo nell’occhio. Probabilmente a New York non avrebbe trovato delle amiche con cui parlare in yiddish, né tantomeno in tedesco. Nessuna lingua, nessun vestito, nessun giocattolo. Nessun’amica. E allora cosa le restava?

Di colpo Lea avvertì un moto di rabbia verso sua madre per aver trasformato lei e Michael in due nullità, due pupazzi vuoti, due fogli bianchi, cancellando tutto.

Improvvisamente, l’oceano che circondava la nave e dal quale prima si sentiva cullata le sembrò minaccioso, profondo e sconosciuto. L’orizzonte, così libero e vuoto, come una linea tracciata con un righello, le apparve assurdo e desiderò intensamente vedervi apparire un qualsiasi oggetto, un’isola, la sagoma di un’altra nave, una catena montuosa, qualsiasi cosa che potesse spezzare quella riga. La bambina bionda, che non si curava di lei e continuava a reggersi al bordo della panchina, le sembrò un foglio bianco, un contenitore vuoto, e la nave le apparve improvvisamente carica di contenitori vuoti come lei, pronti ad essere trasportati dove qualcuno li avrebbe riempiti di nuovo. Lea sentì la testa girare, e le gambe estremamente pesanti. Saltò giù dalla panchina e iniziò a correre sul ponte, e quando trovò un punto libero sul parapetto dove potersi aggrappare si accovacciò, poggiando la fronte sulla ringhiera gelata. Rimase per qualche minuto a fissare il riflesso del suo occhio sul metallo lucido, sentendosi stranamente più calma. Si aggiustò sulle spalle le trecce castane, reggendosi fermamente alla ringhiera. Si allisciò la gonna grigia, mise una mano nella tasca del cappotto e tastò un piccolo bottone dimenticato, che si era staccato chissà quanto tempo prima da una delle sue camicette. Ispirò profondamente cercando di ricordare la camicetta, e in che occasione l’avesse indossata, e i complimenti che le avevano fatto le sue amiche a scuola. Le gambe non erano più tanto pesanti, e l’orizzonte non sembrava più così assurdo e vuoto. Le venne quasi da sorridere rendendosi conto che non era affatto una nullità, né tantomeno un foglio bianco.