
C’era una volta un villaggio nato sulla riva di un lago.
Il lago si chiamava Silenzio. Il nome del villaggio non viene più pronunciato.
Per tre quarti dei suoi confini era delimitato da una vasta foresta di aceri rossi e abeti che si estendeva per miglia in tutte le direzioni, e gli uomini erano in grado di capire che al di là della nebbia sorgevano montagne solo perché gli alberi risalivano le loro scarpate, tingendole di cremisi durante l’autunno. Gli abitanti del villaggio non sapevano che esistesse un mondo oltre quelle cime, né coloro che vivevano dall’altro lato erano a conoscenza di quel piccolo gruppo di case. Le uniche cose che gli uomini del lago conoscevano erano l’acqua, il cielo, il bosco e la roccia.
Poi nacque una bambina che conobbe molto altro.
I suoi capelli erano rossi come le bacche d’agrifoglio e il suo passo leggero come il respiro di un uccello.
Per il suo tredicesimo compleanno la madre le donò un’ocarina, e da quel momento non ci fu neanche una sera in cui la ragazza evitò di suonarla, facendo aleggiare fuori dalla finestra della sua camera melodie semplici e dolci, più spesso allegre che tristi; la gente alzava la testa e sorrideva, passando davanti a quella casa – e per molto tempo non prestarono attenzione alle piccole schegge di luce che balenavano sul davanzale mentre la ragazza suonava.
La stanza della bambina era piccola e dalle pareti di legno, con una sola finestra circolare; aveva un grande letto con una morbida coperta verde e uno scrittoio, una cassapanca e qualche scaffale. Molti dei suoi giocattoli erano riposti in angoli insoliti, in attesa che si decidesse del loro destino. Dopo aver cenato ed essersi lavata, la bambina si arrampicava sul materasso, socchiudeva la finestrella e, con i gomiti poggiati sul davanzale, si divertiva con l’ocarina.
Il suo compleanno cadeva in primavera, quindi la finestra era spalancata e il sole non era ancora tramontato quando la ragazza suonò per la prima volta.
All’inizio le scambiò per falene, attirate dalla luce nella sua camera, poi per bagliori del sole morente; ma quando si posarono tra le sue braccia e cominciarono a danzare, vide che in realtà erano fate. Sottili ed evanescenti come la fiamma di una candela, con ali purpuree di farfalla, volteggiavano nel vano della finestra apparendo e svanendo come raggi riflessi da uno specchio. Quando la ragazza, stupita, staccò le labbra dall’ocarina, le picchettarono le mani con i loro piedini, implorandola di continuare. E così, ogni sera, un corteo via via sempre più numeroso si radunò sul davanzale della bambina per ballare e giocare nei modi arcani e ineffabili delle creature del bosco.
Venne l’inverno, ma la ragazza cercava sempre di tenere aperto uno spiraglio per le sue fatine ad ogni tramonto. Il buio scendeva presto, e le donne che sull’uscio delle loro case richiamavano i bambini per la cena o aspettavano il ritorno dei mariti cominciarono a notare i fuochi fatui che vagolavano sotto il tetto dei loro vicini. Non ne fecero parola, tuttavia, fino all’anno successivo, quando la bambina compì quattordici anni.
Quel giorno abbandonò definitivamente i vestiti infantili e cominciò ad indossare gli abiti smessi di sua madre, imparò ad acconciare i capelli e ad atteggiarsi da signorina. Non amava unirsi alla compagnia delle sue coetanee, preferendo di gran lunga sgattaiolare nella foresta ad ogni occasione buona oppure passeggiare da sola per il villaggio, cantando a bassa voce: tutto questo non fece altro che accrescere le attenzioni rivolte a lei. Prima ancora del suo quindicesimo compleanno, ricevette già tre proposte di matrimonio. Ma lei non se ne curava: altre compagnie reclamavano la sua presenza.
Fu proprio in quell’anno, infatti, che le fate la condussero nel bosco per farla suonare per loro. All’epoca di sentieri ce n’erano ben pochi, solo quelli usati dai boscaioli e dai cacciatori, e nessuno di essi si addentrava mai nel fitto della foresta. Le fate le mostrarono una via fatta di fragole nascoste nel profondo del sottobosco, di tane di volpi e di macchie di funghi sugli aceri, una via tortuosa ma stranamente sgombra, come se gli alberi non osassero intralciare il cammino delle piccole creature.
Non c’era una radura, alla fine del sentiero, né una casina ricoperta di ortiche, ma solo una spaccatura nella terra provocata dal corso di un ruscello: tra le pietre umide e lisce e le felci ombrose si annidavano gli spiriti della foresta, dai colori molteplici e le ali traslucide, tutti con occhi neri come quelli dei corvi, tanto grandi da sporgere dal loro viso minuto. La bambina si accucciava ai piedi di un abete e cominciava a suonare l’ocarina, guardando le fate librarsi in volo sopra la sua testa e volteggiare seguendo la melodia. Dovevano esserci dei rituali ben precisi, ma lei non riusciva a comprenderli; la sola cosa che non poté sfuggirle fu l’apparizione del Re e della Regina delle fate.
Sembravano entrambi fatti d’oro puro e le loro ali erano piumate e aggraziate come quelle dei colibrì: danzavano al centro del corteo, che si disponeva in cerchi concentrici, ognuno dei quali ruotava secondo un senso e un ritmo diverso. Era ipnotico. La ragazza non riusciva mai a terminare le melodie che aveva in mente, perché le sue palpebre si facevano pesanti e i suoi pensieri sembravano inciampare l’uno sull’altro, muovendosi a rilento, finché la sua testa rossa non scivolava su un giaciglio di muschio, cedendo al sonno.
Risvegliandosi, vedeva sempre le fate intente in una concitata conversazione: le parole erano quasi indistinguibili le une dalle altre, tanto le loro voci sembravano un unico flusso di note limpide, come quelle prodotte dall’ocarina. La ragazza restava ad ascoltarle, un braccio piegato sotto la testa, domandandosi se la musica da lei composta avesse un qualche significato per quelle creature, come se si trattasse della loro lingua. Da piccola aveva provato a parlare con loro, ma non aveva mai ricevuto risposta. Adesso che si sentiva più adulta e sicura di sé provava a interloquire con qualche timida nota, cercando di comunicare. Allora le fate si azzittivano immediatamente, e restavano a fissarla con intensità.
Ma decisero di non esporre i segreti del loro mondo prima dell’arrivo dell’autunno, quando gli aceri incendiarono la foresta e le montagne con le loro foglie rosso cremisi e il cielo plumbeo cominciò a gravare sul lago come una minaccia. Fu nell’autunno dei suoi quattordici anni che la ragazza comprese tutto ciò che agli uomini non era dato comprendere, e apprese della nascita del cielo e del lago, e dei misteriosi tesori che essi custodivano; imparò il linguaggio delle rocce e degli alberi, imparò a domare gli orsi e i lupi e ad evocare il vento. Le fate erano sempre con lei, nascoste tra le sue trecce o nelle pieghe del suo vestito, e la consolavano quando suo padre la batteva e i paesani borbottavano oscuramente alle sue spalle.
L’inverno fu aspro e tenebroso. La neve cadde presto, costringendo gli uomini ad uscire nella bufera per finire di radunare le provviste prima che tutto il loro universo venisse sepolto da quella bianca coltre. Nel giro di una settimana divenne impossibile uscire di casa.
La ragazza sedeva in camera sua, lo sguardo rivolto alla finestra: le imposte erano congelate, ma lei non aveva il coraggio di chiedere l’aiuto di suo padre per aprirle. Li sentiva parlare, a volte, i suoi genitori e i rari visitatori che venivano per barattare le loro scarse risorse. Un inverno inusuale, diceva sua madre. Un inverno diabolico, correggevano gli ospiti. La ragazza studiava allo specchio nuovi modi per legarsi i capelli, in modo che le ciocche nascondessero i lividi sul suo viso. Non che avesse più molta importanza: i suoi pretendenti erano volati via con la stessa rapidità con cui una volta andavano ad affollare la sua porta. Forse sarebbe stato più saggio mostrare al paese che in qualche maniera stava pagando per le sue azioni. Alzò lo sguardo sulla fata seduta sulla cornice dello specchio, e lasciò che i capelli le ricadessero scompostamente sulle spalle.
La neve cominciò a sciogliersi, e il sole sembrava tornato ad emanare calore. La ragazza guardò gli uomini avviarsi a gruppi verso i campi e ne vide altri dirigersi verso il lago per testare il ghiaccio; si grattò nervosamente la nuca, non ancora abituata a sentire solo pochi ciuffi di capelli spazzarle il collo.
Presto avrebbe dovuto trovare nuove tane per nascondersi dai taglialegna e dai cacciatori.
Non era stato difficile andarsene. Una sera era uscita nella tormenta e nessuno l’aveva fermata, nessuno era corso a cercarla il mattino dopo – anche se lei sapeva che tutti l’avevano vista, dalle loro piccole finestre illuminate, percorrere la strada maestra e rifugiarsi nel bosco. Lei era felice, in fondo, e pensava che anche i suoi genitori sarebbero stati più felici così.
Vivere era semplice, quando si era amici delle fate. Non le mancava nulla. La nutrivano, cucivano per lei dei magnifici vestiti e la tenevano al riparo dal freddo e da tutto ciò che potesse ferirla. Il giorno del suo quindicesimo compleanno fu una giornata splendida, e suonò e ballò insieme alle fate per tutto il pomeriggio e alla sera salì su uno degli abeti più alti per vedere le stelle; ogni tanto lo sguardo le cadeva sul gruppetto di case sotto di lei, ma le fate non permettevano che si rattristasse, e le pungolavano il mento per farla tornare ad alzare gli occhi al cielo. Rise molto quel giorno, come non rideva da tempo.
I cacciatori giuravano di poter sentire quelle risate, di tanto in tanto, quando durante l’estate si inoltravano nel bosco in cerca di selvaggina.
E quell’anno furono costretti ad addentrarsi sempre di più: gli animali sembravano essere tutti scomparsi, migrati in zone sconosciute, gli antichi sentieri di caccia invasi dai rovi e dalle ortiche.
Un silenzio innaturale covava sopra le cime degli alberi; tutto era immobile.
La ragazza li osservava pensierosa, con le fate al suo fianco, mentre si spingevano oltre i confini da loro conosciuti, guidati dalla fame e dalla disperazione.
Mai una volta le creature le permisero di avvicinarsi per aiutarli a ritrovare la strada di casa. Così il villaggio perse una dozzina di uomini, e l’autunno incombeva. Le dispense contenevano appena qualche scoiattolo e qualche tordo; i campi sembravano ammorbati, con le loro spighe grigie e afflosciate; i semi negli orti si rifiutavano di germogliare; la frutta era senza polpa e ricoperta di bubboni mai visti.
La ragazza non si accorse di tutto questo. Le fate occupavano tutta la sua giornata, insegnandole infiniti segreti e raccontandole le storie del cosmo. La sera, però, si sentiva strana: come se ci fosse qualcosa che stava dimenticando, come se fosse in ritardo per un evento molto importante, come se avesse perso una cosa insostituibile. Tormentata e confusa da queste sensazioni, una notte uscì dal suo rifugio per incamminarsi verso il limitare della foresta. La via da lei percorsa era piana e piacevole come era sempre stata, priva delle asperità che ostacolavano i cacciatori.
Non c’erano fioche luci a ravvivare qua e là la facciata delle abitazioni, né sbuffi di fumo che uscivano dai comignoli: al chiarore incerto della luna di fine estate, l’intero villaggio pareva un ammasso roccioso, scuro e morto, freddo e dimenticato. La ragazza restò a guardarlo, seminascosta dietro l’ultimo albero prima del breve prato che conduceva al paese, oppressa da un’inspiegabile urgenza, dall’impressione che qualcuno la stesse aspettando con impazienza.
Indecisa sul da farsi, si sporse leggermente fuori dalla protezione del tronco e rimase in ascolto: nel silenzio implacabile della notte, sentì farsi strada un borbottio di fondo che andava aumentando, simile a quello di calabroni impazziti. Prima che potesse voltarsi, la investì come il cavallone di un’onda: uno sciame furente di fate, ronzante e rosso di collera, si abbatté su di lei, spintonandola indietro verso la foresta e non la mollò finché non fu ritornata nella sua tana.
La ragazza obbedì, vergognandosi anche un po’, perché sapeva che le creature volevano solo proteggerla. Per tutta la notte le sentì cicalare fuori dal suo nascondiglio, illuminato dal loro bagliore e risuonante del battere irritato delle loro ali.
Il mattino seguente, si convinse che era stato quello il motivo per cui aveva sognato tremendi e fragorosi incendi. Uscendo all’aria aperta, fu accolta da un piccolo corteo di lepri che superava il ruscello per raggiungere in gran fretta le zone più nascoste della foresta. Qualche minuto dopo le parve di vedere, in lontananza, le sagome scure di un branco di lupi marciare nella stessa direzione. Le sue amiche non erano nei paraggi, perciò la ragazza decise di andare a passeggiare per conto suo.
Fu il vento a raccontarle quello che era accaduto la notte precedente, bruciandole le narici con l’odore acre del fumo; arrampicata sui rami più alti vide gli alberi crollati e anneriti dal fuoco e, in lontananza, il viavai di persone sul prato – ora bruno e cinereo – che andavano a recuperare i cadaveri sparsi nel sottobosco.
Quella notte, le fate l’avevano salvata da una carneficina.
L’autunno fu breve come un sospiro. Il gelo si impossessò rapidamente della regione, serpeggiando dentro le case ancora appesantite dal lutto, facendo rabbrividire il lago con i suoi aliti sottili e radunando le nubi sopra le teste dei paesani, come un sinistro presagio. La ragazza, infagottata nelle pellicce e ben riparata nel suo nascondiglio, lo percepiva appena: ma qualcos’altro di ben più agghiacciante si faceva strada dentro di lei.
Non aveva più rivisto le fate dalla mattina dopo l’incendio. Non aveva più sentito un palpito di vita attorno a sé. Gli animali erano fuggiti, e ora la foresta era caduta in un sonno profondo. Ma più della solitudine e del silenzio, ciò che la turbava era la natura stessa di quell’inverno: anomalo come quello dell’anno precedente, mortifero come l’estate appena trascorsa e improvviso come l’incendio provocato dagli uomini.
Nelle lunghe ore di buio del suo letargo forzato, la ragazza ricongiunse tutti i pezzi del suo rompicapo.
La carestia aveva spinto gli uomini a cercarla, a profanare il territorio delle fate e a voler bruciare ciò che consideravano la causa delle loro disgrazie; l’inverno prematuro era la vendetta degli spiriti della foresta. Quanto sarebbe durato, non osava prevederlo. Per la prima volta da quando le fate erano apparse davanti a lei, la ragazza cominciò ad avere paura.
I giorni erano brevi e grigi, stanche ombre si trascinavano davanti alla sua tana, bagliori pallidi sembravano fiorire nel sottobosco come la rugiada al mattino e saturare l’aria greve e affilata come una ghigliottina; le notti erano simili all’infanzia del mondo, primordiali, eterne, scevre di suono e luce, fredde e ottuse.
La ragazza si rannicchiò in se stessa come un fiore, e attese.
Fu la luce a svegliarla – non quella del fuoco, non quella della luna, ma quella cerea del sole invernale, una piccola moneta che riluceva tra la foschia e le chiome degli abeti. Qualcuno doveva essere entrato nel suo rifugio, per far sì che quel chiarore la raggiungesse.
La giovane si alzò a fatica sui gomiti, intorpidita e intralciata dalle pellicce, e si ritrovò a guardare le sue vecchie amiche, tornate da lei dopo lunghi mesi, tutte graziosamente in fila davanti ai suoi occhi. Scintillavano festosamente, i corpicini color ghiaccio e le ali di cristallo, gli occhi rossi che parevano emanare calore. Al centro stavano il Re e la Regina, dorati e silenti; la presero per una mano ciascuno e la invitarono ad uscire all’aperto.
Nulla sembrava cambiato da quando era scesa in letargo, eppure alla luce del sole la neve non sembrava una soffocante minaccia, il vento era sopportabile, il silenzio era spezzato dal frinire di mille ali che battevano in sintonia. La piccola corte la condusse verso il nucleo del regno, la spaccatura nella terra dove ora il fiumiciattolo era del tutto gelato e le felci quasi sommerse dalla neve.
Allora la ragazza capì: era il giorno del suo compleanno; la primavera era infine giunta. Presto sarebbe ritornato il caldo, e la vita, i colori, i suoni.
La coppia reale aprì le danze, volteggiando sopra il rivo con una grazia che non poteva che commuovere. La ragazza ripescò la sua ocarina tra gli strati di vesti e cominciò a suonare e battere i piedi a tempo, riscaldandosi mano a mano. Il resto delle fate si unì alla festa, e nel giro di pochi minuti l’intero bosco brillò come una gemma; non aveva mai visto così tanti spiriti tutti insieme, tutti che ballavano intorno a lei quasi volessero stringerla in un abbraccio. Così suonò e suonò, e la notte scese attorno a loro senza trovarli più stanchi o meno felici.
Il mattino seguente il sole squarciò di nuovo la foschia, si fece strada tra i rami rinsecchiti e infine toccò il suolo, la lastra di ghiaccio che un tempo era un ruscello.
I capelli rossi della ragazza sembrarono prendere fuoco a quella carezza; la pelle, pesta, cascante, raggrinzita come un frutto marcio ancora riluceva. Il suo petto ebbe uno spasmo: dalle cavità delle orbite uscirono il Re e la Regina, splendenti come dèi, e lentamente volarono verso il cielo. Qualche attimo dopo, una giovane fata riemerse dalle sue labbra socchiuse, si arrampicò sul suo viso e raggiunse il gruppo che la stava aspettando appollaiato sulla fronte della giovane. Si librarono in fretta con un fremito di risolini, diretti al villaggio dove avrebbero cercato la loro nuova amica.
Quando il ghiaccio si sciolse, il fiume si prese il corpo della ragazza.
Gli uomini dissero che non c’era mai stata una primavera tanto rigogliosa come in quell’anno.