“Per Te” di Francesca Berardi – Workshop 2018

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Francesca ha scelto di accompagnare questo testo al brano: 

Arrival of the birds & Transformation della Cinematic Orchestra

Ti consiglio dunque di leggerlo con questa colonna sonora, sarà ancora più magico. 

“Il treno era in orario.

La stazione di Roma era piena di gente, mi ritrovai subito sotto il tabellone delle partenze. Freccia rossa 9642 diretto a Firenze era arrivato al binario 2.

Non mi fermai nemmeno per leggere, correvo ero di fretta. Scansai le persone velocemente. Si sa, durante le feste di Natale le stazioni sono invivibili. Tutti corrono per un dove e per  un chi.

Entrata, mi sedetti lato finestrino.

“Firenze è vicina a Roma”, pensai. Solo un’ora e poco più e sarei arrivata. Il vagone stranamente non era pieno. Il mio posto con seduta unica, sulla destra una famiglia, avrei detto irlandese, in viaggio per l’Italia. A sinistra, poco dopo di me, due signore con due grandi cappelli. Una ragazza che ascoltava la musica ed un ragazzo sul fondo che leggeva un libro. Il capo stazione fischiò, il treno partì.

Ero stanca, stanca di correre tra il lavoro presso lo studio di avvocato, correre per fare la spesa, correre per conciliare la mia vita da 25 enne tra famiglia, sport, amiche e corso di teatro. Sentivo che correvo e basta. La mia vita era diventata un correre per tappare costantemente buchi. Quando facevo qualcosa, mi sentivo in orario e puntuale con la mia tabella di marcia. Ma non mi sentivo li. Con mia sorella, in camera sua, mentre mi raccontava del ragazzo che gli piaceva. Al compleanno dei 70 anni di mia nonna. Quando mia madre mi chiedeva di aiutarla a fare il bucato. Quando mia cugina mi raccontava del lavoro. Quando a teatro provavo nuovi pezzi, magari mi riuscivano pure ma non li sentivo veramente. Quando uscivo a cena con le mie amiche sentivo solo tante voci intorno a me ma non ascoltavo veramente. La cosa più assurda era che la mia sensibilità era talmente diminuita che non capivo mai il vero perché non stessi bene con me stessa. “Chi troppo vuole, nulla stringe”, mi ripeteva spesso mia nonna. Ma nulla da fare, io mi sentivo invincibile.

Tali considerazioni sulla mia vita non le feci li sul treno, o meglio non all’inizio del viaggio. Ero ancora avvolta dalla nuvola di super eroismo che faceva da parete insonorizzata al mio cuore. Ero stanca è vero e sentivo di esserlo. Li per li pensai alla stanchezza fisica. Mi voltai verso il finestrino.

Il sole tramontava. Voltandomi all’indietro per vedere meglio l’orizzonte, la mia attenzione ricadde sul bracciolo del sedile.  Li era rimasta incastrata una lettera con una scritta, “Per Te”.

Incuriosita, dubbiosa ed incredula restai fissa a guardare la busta. La sensazione era la stessa di aver trovato un messaggio dentro una bottiglia in riva al mare. L’unica differenza è che in quell’occasione avrei avuto la certezza si trattasse di una lettera o quanto meno di un messaggio.  Nel mio caso non potevo sapere a priori il contenuto di quella busta. Mi guardai attorno più e più volte. Cercavo il proprietario, qualcuno a cui potesse appartenere. Presa dalla curiosità mi decisi e aprii. Ripiegata su stessa, una lettera, senza un emittente né un destinatario. Nessuna data, nessun luogo. Avrei scommesso calligrafia da uomo. Forse una lettera di un padre ad una figlia, forse una lettera d’amore, chissà.

“ Sto partendo e sta volta il viaggio sarà lungo, me lo sento.

Allora mi ritrovo qui in questa sala d’attesa e ti penso e penso a noi e penso soprattutto alla voracità del tempo. Ti scrivo questa lettera affinché un giorno tu la possa rileggere e rallegrare il tuo cuore. Vedi figlia mia io anche se parlo poco, osservo tanto ed in questi ultimi mesi mi sono reso conto di quanto tu mi sia stata vicina. Peccato che la mia malattia mi abbia impedito di gioirne a pieno del tempo insieme.  Ma la verità è che non mi faceva stare bene vederti correre da una parte all’altra pur di conciliare la tua vita professionale da avvocato, da mamma tuttofare, da moglie, da amica, da insegnante di yoga, e da figlia che doveva pensare ad un padre malato. Ma sai io avrei voluto godere del tempo insieme quando stavo bene anche io.

Questo non vuole essere un rimprovero né un rinfacciarti nulla perché in questi mesi ho riflettuto quanto anche io ero totalmente preso dalla mia carriera di chirurgo che mi ha portato a dimenticarmi spesso delle mie priorità. Stare di più con la mia famiglia, ascoltare tua madre quando mi parlava dei suoi problemi al lavoro senza pensare a quanti interventi avrei avuto io il giorno dopo. I tuoi saggi di danza e i concerti di pianoforte di tuo fratello sempre al telefono e mai davvero connesso con mente e cuore.

In questi mesi ho riflettuto tanto ed è come se ho visto il film della mia vita e solo prima di arrivare ai titoli di coda ho capito che la vita è più bella quando la condividi a pieno con le persone che ami. Non riuscirai mai a fare tutto, non siamo invincibili ne tanto meno immortali. Stiamo solo vivendo in una società che ogni giorno ci insegna a vivere di connessioni e condivisioni apparenti. Ci stanno de-sensibilizzando, allora prima di arrivare a destinazione voglio dirti  vivi a pieno ogni momento della tua vita. Nelle gioie e nei dolori, ascolta le persone che ti sono vicine e goditi a pieno i momenti che coloreranno la tua vita. E quando senti che la routine del quotidiano ti sta risucchiando verso questa non consapevolezza ricordati che ogni traguardo sarà bello se condiviso con qualcuno. Dedicati alle persone che ami ed impara ad assaporare i sapori che ti regalerà ogni attimo condiviso. Ti dico un trucco, quei momenti li riconoscerai perché se vissuti a pieno ti sentirai nel posto più bello del mondo. Sentirai che in quei momenti forse ti scorderai di ciò che in quel momento ti preoccupa tanto e solo parlando capirai che insieme tutto si risolve. Ognuno di noi dovrebbe avere una guida spirituale che gli indichi il cammino. Allora quando avrai voglia, passeggia all’aria aperta in un parco e ascolta il vento tra le foglie, guardati intorno e nota un dettaglio a cui prima non avevi dato importanza e poi condividilo con chi vorrai. Quando farai qualcosa per qualcuno, mettendoci tutto il cuore, li capirai il segreto della vita.

Le piccole cose sono la vera poesia della vita. Solo averne la consapevolezza ti renderà davvero libera e felice. Con affetto Papà”.

Finire quella lettera non fu semplice. Sbam una pallottola si era conficcata nel mio cuore. E’ come se avessi rivisto la mia vita tra le righe di quella lettera. Poteva essere quello un assurdo caso del destino? Ero a tratti impaurita e mi presero sensi di colpa ma non potevo scappare nel vittimismo perché quelle parole volevano dirmi qualcosa. Forse che stavo scappando continuamente, cercando di essere ovunque e con tutti ma in realtà da nessuna parte e con nessuno veramente.

Quella doccia gelata di parole mi aveva rimesso al mondo. Me la misi in borsa avvolta da un senso di gratitudine e di dispiacere perché  sentivo il dovere di consegnarla al destinatario.

Ma data l’impossibilità nel compiere la missione pensai che piuttosto era bene tenerla per rileggerla all’occorrenza. Forse era proprio il destino che voleva parlarmi.

Spaesata mi ritrovai fuori dalla stazione di Firenze. Annullai l’appuntamento di lavoro e mi diressi verso i giardini di Boboli. Avvertii una mia cara amica d’infanzia che abitava li vicino. Una camminata all’aria aperta sarebbe stato il posto migliore per imparare a ricominciare e diventare più consapevole della condivisione, quella vera. E ricominciare a vivere.”

di Francesca Berardi

 

“Da serva a femme fatale: la perdita e la riconquista di sé” – di Giulia Nardelli Workshop 2018

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In una regione remota del lontano Oriente, una giovane donna piena di vita e spensieratezza, si vede costretta dalla propria famiglia a sposare il custode del Tempio, uomo rude e dall’animo bellicoso. Sin dal loro primo sguardo, la dolce fanciulla, consapevole di aver compiuto una scelta sbagliata, inizia un percorso di introspezione volto a riflettere sulla sua condizione e sul suo io interiore, finché in una “gelida” notte di fine Agosto, la protagonista, nell’intento di analizzare le sue intimità più recondite, incontra in sogno il proprio alter ego: un’immagine di sé libera da preconcetti e affascinata dai colori della vita. Ricordo che ormai non le appartiene più. Ella allora decide di abbandonare la dimora in cui ha giaciuto per mesi con quell’immagine di uomo burbero e intransigente; in quel tempio che per troppo tempo ha rappresentato una prigione dalla quale evadere. Inizia così una metamorfosi di sé: da sposa imprigionata si eleva un’idea di donna artefice del proprio destino. Una donna libera di essere tale, libera di indossare un vestito più scollato, libera di ammiccare o di intrattenere una conversazione più maliziosa. Un’immagine femminile ancora poco accettata in quelle società maschiliste, ove la donna è considerata unicamente come mero “angelo del focolare” e fonte fertile di vita. Un’immagine denigrata e perseguitata, che merita di essere anestetizzata con il ricorso deterrente dell’esclusione sociale: la prigionia. Così la nostra giovane protagonista, ancora acerba dei pericoli della vita e inconsapevole delle sembianze eccentriche e inusuali assunte, in un placido pomeriggio di fine estate, sorpresa in atteggiamenti di auto-erotismo, viene prelevata e condotta dall’autorità pubblica in un carcere di massima sicurezza: il cruccio di vivere una vita rinchiusa si ripropone. Per mesi costretta in quella gabbia che diverrà la propria casa, la fanciulla sogna la propria libertà, fin quando tale desiderio divenuto sempre più insaziabile e incontentabile, la condurrà a sedurre il guardiano della propria sofferenza: la guardia carceraria incaricata di custodire le chiavi della cella. Ammaliato dal suo estro alternativo, il secondino inadempie i propri compiti e propone una via di fuga, offrendole le chiavi della salvezza. Così la ragazza, consapevole delle proprie capacità amatorie, organizza con l’aiuto del proprio compagno di cella, un piano di evasione. Nell’ingannare l’agente di custodia, i due galeotti evadono, sognando di tornare in quel mondo lontano irto di stravaganza e diversità, quale l’Occidente. Sennonché nella strada di casa, i due amanti animati da uno spirito di forte passione, si imbattono in una segreta palude costellata dalla peste nera, dove per salvarsi sono costretti a camminare sospesi nel vuoto su un ponte traballante e fatiscente. Le difficoltà non sembrano finite e il nero sembra avvolgere anche la loro forte sinergia, tanto da portarli ad una scelta decisiva: solo uno dei due si salverà. La donna così riflettendo su quell’immagine tanto odiata e rifiutata di “organo servente” decide in preda ad un momento di convinto eroismo di compiere un sacrificio d’amore scegliendo la morte. Decide dunque di cadere accompagnata e guidata da quella gravità che rappresenta forse l’unica reale liberazione alle catene rugginose della vita.

“Cara Valentina” – incipit di un racconto di Valentina Faloni

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Cara Valentina,

è tempo che non ci vediamo, quanta vita tra noi due, quanta vita è stata, quanta vita c’è n’è,  quanta ce ne sarà. Tutto è cambiato e faccio fatica a riconoscermi e a ritrovarmi. Tu come stai? Ogni volta che ci rincontriamo dopo lunghi periodi di vite trascorse lontane, io mi ritrovo con gli occhi di bimba e cerco di capire se c’è ancora quella che ero, se abbiamo rispettato i nostri sogni, se il mondo ci accolto così come volevamo essere o ci ha cambiato inevitabilmente senza chiedere il permesso.

La mia paura più grande, ogni giorno è quella di non tener fede a quella bambina, allo sguardo maturo e consapevole che c’era nonostante l’età, alla grinta, la tenacia, e la fantasia, unica altra interlocutrice dei nostri progetti.

Quella paura si scontra con il presente, che corre, corre, corre. Corre e la paura è quella di non capire dove va e di perdere il momento. Sembra che ci debba essere un momento giusto, inevitabilmente per tutti. E ci hanno convinto che deve essere il prima possibile, altrimenti tutto è perduto. Finalmente ho capito, ancora una volta, e me ne convinco che quel momento lo decidiamo noi.

Ho bisogno di ripercorre quei passi, perché è lì che voglio tornare, è l’unico modo per essere sincera sui miei propositi e rispettare una personalità che c’è, c’era e ci è stata donata dal giorno in cui abbiamo scelto di presentarci al mondo. Io ero già abbastanza infastidita, la placenta era infartata, dice mia mamma, piena di buchi, volevo uscire di lì e presentarmi al mondo ostinatamente. Le mie foto mostravano un ragnetto con i capelli lisci, folti e neri come il carbone, degli occhi grandi, aperti e profondi, e un’espressione incazzata.  Tu forse eri placida, pelata e con gli occhi chiusi, pronti a brillare d’azzurro una volta pronti per il mondo, chiari come la tua pelle che è rimasta così candida da fare invidia a Biancaneve. Questo non lo so, come eri appena nata, mandami una foto se ne hai. La televisione mi disturba, la spengo. Questo computer continua ad impallarsi ma io continuo a scrivere e mi dico che è arrivato il momento di comprarne uno nuovo. Quanto mi piaceva scrivere con la penna, mi piace ancora, trovo che abbia qualcosa di magico, le parole prendono forma dai pensieri e sul foglio prendono forma con il loro carattere, grafico e rappresentativo di una personalità, non a caso, forse, si utilizza la stessa parola: carattere. Due significati diversi, due concetti diversi, con uno stesso significante, un po’ come noi, amiche inseparabili ma ormai separate da una vita, con uno stesso nome: Valentina.

Ti scrivo perché voglio raccontarti una storia, e so che mi pensi, e che spesso ti fermi anche tu per capire chi sei, dove stai andando, chi vorresti essere, e dove ti porteranno le tue scelte. Senza indugi, so che ti chiedi se c’è ancora quella bambina tenace e timida che rivendicava indipendenza da tutto e tutti, che leggeva e scriveva, e guardando Love Story desiderava un amore come quello ma con un lieto fine.

Valentina, forse è per che ti chiami come me, e perché le nostre vite si sono tenute per mano quando ancora il mondo serviva a cullare i nostri giochi e la verità del nostro essere era lì, fiera, senza temere il domani. Sei lo specchio della coscienza del passato e quella del presente. Di fronte a te io mi arrendo alla realtà e devo fare i conti con quello che è oggi. Le risposte alle mie domande sono lì, nelle parole dei nostri ricordi e in quelle del nostro presente. Allora ti racconto di quello che è stato dopo di noi e tu dimmi se mi riconosci ancora e se c’è qualcosa che ho dimenticato e che dovrei tenere a mente.

“Il giardino” di Diletta Bellotti – Workshop 2016/2017

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Io non sono un giardino, ma una casa che da su di un giardino. Questo perché non vorrei mai vivere dentro di me ogni momento della mia vita, vorrei potermene andare e osservarmi da fuori, esitare sull’uscio e lasciare le erbaccie crescere per un po’. Dalla finestra della mia casa vedo il mio giardino, ne vedo gli insetti e le piante, gli animali notturni e quelli diurni, i passanti che sbirciano ma non osano entrare.

La mia casa è la mia casa di Berlino, esattamente com’è, con tutta una parete di finestre, all’undicisemo piano, le pareti scrostrate dalla carta da parati, la luce grigia. C’è solo il letto però: niente divano ad elle con le brasche di sigarette, niente TV nascosta sotto un telo per rispettare il feng-shui, niente quadri di renne con lucine, niente arnesi da cucina, niente fornelli elettrici, neanche il bagno e la cabina armadio. Solo il letto, bianco, gigantesco, morbidissimo con i suoi cassettoni incastonati nella struttura, e le tende, bianche e il parquet, caldo. Nei cassettoni tengo delle piante, quando esco apro completamente i cassettoni, cosicchè possano prendere aria. Mi metto le scarpe, un giaccone, una sciarpa rossa che ho comprato ad un Charity Shop a Londra. Ho solo quei vestiti in casa, non so perchè. Torno indietro ho dimenticato qualcosa: i cassettoni vanno aperti. Li spalanco con forza e annaffio un po’ le piante, esagero come al solito, straborda dell’acqua, ma pulirò dopo. Esco.

Scendo undici piani, pestando forte i piedi, corro per attraversare la strada e dall’altra parte c’è il parco, gigantesco. Sopra passa un treno, che sembra volare. In questo parco c’è un giardino, solo mio, almeno così credo, perchè non ci ho mai visto nessun altro. Prima di varcare la soglia inizio a sentire il collo pungermi dolcemente. Mi prefiguro il tocco del prato, ispiro, chiudo gli occhi per un attimo. Cerco di immaginarmi com’è il giardino, non riesco a ricordarlo, eppure l’avevo guardato poco prima, dalla finestra della mia camera e non ero rimasta sorpresa. Ora ero lì, sull’uscio e non ne ricordavo le forme. Non sentivo alcun odore, alcun rumore. Chiudo gli occhi con più forza, come a voler spingere con forza la porta della mia memoria. Cerco un ricordo autentico, estrapolato dalla mia immaginazione (è lì che vive il mio giardino), ma riesco solo a pensare a luoghi già visti. La mia immaginazione è il mio passato. Non c’è niente’altro.

Non voglio aprire gli occhi perchè so che non vedrò niente, il mio giardino non esiste e anche quando faccio i primi passi verso l’interno non mi pare di schiacciare il prato e i fiori, ma di camminare solo sopra i miei piedi, come se i miei piedi fossero le caviglie e i piedi fossero il terreno. Ho paura e mi inizia a girare la testa, voglio aprire gli occhi ma continuo a non farlo. Voglio sedermi e non riesco a piegare le gambe, continuo a camminare più cautamente. Non sentire nessun rumore mi distruba, mi innervosisce profondamente. Tiro fuori dalla tasca il telefono e le cuffiette, spingo play. Con gli occhi chiusi. Parte 1979 dei Deru. Sono passata dall’odiare il rumore ad odiare il silenzio, in un battito d’ali.

Ritorno dentro la mia mente, cerco di ricordarmi il giardino, inizio ad attingere a falsi ricordi, inizio a costruire intorno a me l’esterno del Sisyphos, la sua barca arenata, i suoi funghi gianteschi, le sue amache, la sua cabina per i massaggi nei giorni d’estate, il suo camioncino Volkswagen senza ruote con gli spacciatori dentro. Ma io non sono lì, e lo so. Non posso essere lì, perchè quel posto esiste. Mi spavento. Cambia musica, credo sia Faith in Strangers di Andy Stott. Ci sono delle parole mischiate all’elettronica, poche, ma ci sono. Mi infastidiscono, la voce è un rumore che m’infastidisce. Cancello il Sisyphos con un’ondata di gesso, torna tutto bianco candido, inodore. Sorrido impercettibilmente. Ma lo percepisco perchè sono proprio io ad aver sorriso, ho tirato un po’ le guance, l’ho sentito. Capisco che non vedrò il giardino se sono nel giardino, o meglio, non riuscirò a vedere il giardino se m’immaginerò di essere nel giardino. Devo guardare il giardino immaginandomi d’essere a casa. Devo immaginarmi il giardino attraverso uno vetro sporco.

Lo vedo finalmente: color seppia. E’ un giardino arido, con un ulivo sulla sinistra, è circondato da un recinto di pietre basse e scure. L’ulivo è secco e giovane, allungo lo sguardo e noto che il giardino è circondato da piante di rosmarino. Profumano. Si estendono finchè il mio occhio vede.

Sotto l’ulivo ci sono io, ho forse dodici anni e sono con una bambina bionda e cicciottella. Io sono anoressica e scurissima, indosso una cavigliera al collo. Io voglio lavorare la terra, piantarci dei bei fiori. E’ tutto color seppia e polveroso. L’altra bambina non vuole sporcarsi, ma mi asseconda comunque un po’ distrattamente. Una voce fuori campo ci dice che la terra è troppo arida per poterla coltivare. Ci dice che stiamo perdendo tempo. Io continuo ad scavare con le mani, un po’ come faceva Rosso Malpelo in quel racconto che avevo letto.

“Ho vissuto tante vite” di Olga Piro – Workshop 2015/2016 (foto di Anna di Prospero)

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Ho vissuto tante vite ma la storia è sempre la stessa: devo rubare del tempo per me. Ne ho così poco che anche per raccontare questa storia, devo estraniarmi di notte dalla vita quotidiana.

Quella che immaginavo fosse la calma, in un angolo remoto, idealista della mia mente, non esiste nella realtà. Io, almeno, posso trovarla solo nella solitudine.

Quando ero bambina, passavo le ore sul letto ad immaginare la mia fantastica vita e quello era il mio gioco preferito.

La mia infanzia non è stata delle migliori, per quanto al mondo ve ne siano sicuramente di peggio.

Pensavo allora che avrei dimostrato a tutti quelli che mi facevano male quanto sarei stata in gamba da adulta.

Volevo diventare una piratessa, un poeta, un condottiero, una spadaccina. Volevo essere un filosofo, un politico e un medico. Sfidando i malvagi, avrei trovato la verità e protetto quelli che amavo.

Non sapevo precisamente questi sogni a quale occupazione sarebbero corrisposti.

Allora io non ero niente ed ero tutto.

Io stavo lì e immaginavo – e leggevo molto per immaginare meglio.

Altre volte, dicevo di studiare ma vagavo per la casa e mi stendevo su di un letto, il mio o quello dei miei, a pensare.

Credo che un letto sia come una barca, le cui fiancate solcano gli abissi dell’animo umano.

Di notte, confesso fino a pochi anni fa, per me al di là del letto c’erano tutte le mie paure. Il pavimento ai miei piedi era un luogo ignoto, solcato da creature nascoste che attendevano che mi assopissi.

Ben diverso era di giorno. Lo è sempre stato, perché di giorno il mio letto è stato il veliero del mio animo. Ho partorito i miei disegni ed affrontato le mie paure, ho pianto chi amavo ed andava via, sono rimasta tenacemente legata al pensiero di coloro che restavano con me.

Capisco ora quei grandi uomini che vivevano nel loro letto, come Proust  o Leibniz, che   quando poteva vi lavorava.

Ma io, molto semplicemente, guardavo dalla finestra fondersi il cielo alla notte. Io immaginavo il soffitto tendersi e partorire il varco che dava all’infinito.

O vedevo le maree dischiudersi al passaggio di un vascello che era il mio slancio verso nuove terre.

O ancora  mi contentavo, invece, di osservare la vita svolgersi di fuori e mi immaginavo correre, correre in un modo allegro, che non potevo fare da sveglia nei giorni peggiori.

E quindi una forza mi attraversava. Vedevo chi volevo essere, la bambina che correva nel sole, la donna che conquistava la sua vita pezzo dopo pezzo. Un giorno, finalmente ebbi il coraggio di solcare quelle vie e camminai mentre mutavano in altre, che non conoscevo. Andai lontano da casa, dal quel letto di bambina e dalla mia finestra. Trascorsero gli anni in Cina, in Africa, in Europa, con lembi di cielo e il mare di tanti paesi diversi.

Ma sempre simile al mio mare interiore, vivido come la forza che raccoglievo immaginando, immenso come il coraggio che ci dona la solitudine.

Ancora oggi dal mio letto il mondo si dispiega. Esso è come una pagina eterna che si srotola, a cui il mio cuore detta il suo divenire.

Esercizio creativo del Workshop di Storytelling tenuto dalla docente Valentina Faloni, in collaborazione con la fotografa Anna di Prospero

“Ogni volta che mi assale il desiderio di viaggiare” di Laura Mariano – Corso 2015/2016

 

“Ogni volta che mi assale il desiderio di viaggiare”

di Laura Mariano

Ogni volta che mi assale il desiderio di viaggiare, parto.

Di solito non è un luogo, un paese in particolare ad attivare il desiderio, ma “qualcosa” che ho urgenza di vedere.

Tutti i soldi che riesco a racimolare diventano carburante per il mio camper.

A volte penso che sia più bello della mia casa; eppure è solo un vecchio Laika degli anni 90, ma è forte, robusto e temerario.

Anni fa è riuscito a portarmi fin su a Capo Nord, ma non in estate quando tutti i viaggiatori animati dal desiderio della luce continua ci vanno, bensì in pieno inverno quando solo i veri curiosi partono alla volta dell’Aurora Boreale. Ha sfidato tempeste di neve, strade ghiacciate e campeggi chiusi, ma alla fine mi ha condotto alla meta e lì si è rifatto improvvisamente casa offrendomi un giaciglio da cui contemplarLa per tutta la lunghissima notte.

Non sono totalmente squilibrata. Non ho affrontato 11mila chilometri da sola per vedere l’Aurora, riesco quasi sempre a trovare un degno compagno di viaggio che abbia voglia di girovagare con me; anzi, devo essere onesta… Riesco quasi sempre a trovare qualcuno disposto a guidare il mio Laika per esplorare luoghi. Ebbene sì amo viaggiare, ma la verità è che detesto guidare; mi piace percorrere strade sul sedile del passeggero. Da lì tutto ha un’altra dimensione: le strade sono infinite, i piccoli villaggi diventano più interessanti delle grandi città ed ogni abitante diviene il tuo vicino di casa per una sola notte.

In compenso, dicono di me che io sia un ottimo navigatore, mi rifornisco di mappe, atlanti, tanta curiosità e una buona dose di insonnia e accompagno chiunque voglia guidare il mio camper.

Ora, il desiderio di partire mi ha assalito da qualche giorno, ma i miei amici sono tutti a lavoro e di un compagno neanche l’ombra, ma devo partire. Esiste un piccolo paese non lontano da dove vivo di cui ho sentito parlare troppe volte per non esserci ancora stata. Il viaggio non sarà lungo perciò salto da sola sul mio camper e parto per Massafra.

Pasolini aveva scritto negli anni ‘50 durante uno dei suoi sopralluoghi per il cinema: “Massafra sorge su un colle spaccato a metà da un torrente… un breve ponte di pietra è sospeso sul canyon grandioso, aperto… e aldilà del ponte si trova il centro della città, una piazza affollata, verso sera, come in un giorno di festa. E’ una calca di uomini vestiti di nero e ragazzi disegnati col diamante e il carbone. Attorno a questa piazza si aggrovigliano, come visceri, i vicoli e le strade scoscese, attraverso cui si regrediscono fino nel cuore del tempo…”.

E poi ha deciso di sceglierlo come set per il suo Vangelo secondo Matteo assieme a Matera, per lui era la Cafarnao pugliese; ho ancora nella testa quel termine “canyon”, cosa vorrà dire?

Parto.

E’ un caldo pomeriggio d’agosto, il sole picchia diretto sul mio tettuccio e la Statale 100 che collega la costa adriatica a quella jonica non è troppo trafficata, anzi pare quasi deserta.

I Buena Vista Social Club faranno da ottima colonna sonora per questo breve itinerario: i colori non sono così distanti dall’Havana, la gente non è così diversa dai cubani e Wim Wenders è il mio miglior maestro e compagno di viaggio. Tutte le foto che scatto sono inevitabilmente influenzate dal suo sguardo: l’amore per i paesaggi senza personaggi, l’immancabile connubio tra parola scritta e immagine, la passione per le insegne.

Eccola Massafra.

Si trova lì, sopra un dolce cucuzzolo, alle porte di Taranto, prima che svettino le ciminiere dell’ILVA; si sente già l’odore dell’acciaio, il caldo e l’afa ne acuiscono l’essenza.

Percorro una serie di curve a gomito in salita, il mio camper sbuffa, ingrano la prima e arrivo a destinazione.

Ma dove è il canyon?

E le case stratificate?

… Molte case basse intervallate da palazzoni in cemento alti dieci piani, le strade che formano un reticolato geometrico, un finto cardio e un finto decumano, una moderna piazza centrale con l’immancabile aquilotto a rimembrar i Caduti della Prima Guerra Mondiale e poi: bar, pizzerie, tabacchini, TuoDì, Despar, Sidis, Slot Machine, Sin City, Punto Snai.

Silenzio.

Caldo.

Deserto.

Neanche un ragazzo dipinto col carbone…

Allora mi fermo nella piazza principale, entro in un piccolo chiosco che ha ancora qualcosa di romantico, per prendere un caffè e chiedere informazioni. Mentre sorseggio il mio ottimo caffè qualcosa attrae la mia curiosità, un cartoncino blu notte con sopra una scritta in corsivo, recita così: “i viaggi sono i viaggiatori” F. Pessoa, lo volto e leggo con attenzione. Si tratta di un flyer con il programma estivo di un’associazione culturale che organizza proiezioni cinematografiche in una piazza del paese che si chiama Piazza Santi Medici. Il programma è lungo e intenso, è diviso in tre tappe: NEXT STOP – visioni di viaggio, Il cielo sopra i Vicoli e Vicoli Corti; ora che ci penso ne avevo già sentito parlare, è un festival di cortometraggi che vanta diverse edizioni.

Ma oggi che giorno è? C’è qualcosa in programma?

Diamine, per un pelo! Oggi è l’ultima sera di Vicoli Corti…

Chiedo informazioni alla donnona bionda che mi ha servito il caffè che mi spiega che la piazza non è molto distante da lì, ma non ci si arriva in macchina (figuriamoci in camper), mi consiglia dunque di parcheggiare nei dintorni e di scenderci a piedi. Pago e riparto nonostante io sia molto in anticipo rispetto all’orario d’inizio; sarà stato quel verbo “scendere” pronunciato dalla barista a destare la mia curiosità o semplicemente la sensazione che quel flyer potrebbe portarmi fortuna. Con molta fatica riesco a parcheggiare il mio Laika, le strade sono davvero strette e gli abitanti per semplificare il tutto parcheggiano in maniera alquanto selvaggia.

Zaino in spalla, macchina fotografica a tracolla e comincio la discesa. Tutto comincia a tingersi di bianco, i vicoli si fanno sempre più stretti e la voce della gente sempre più alta: dialogano da un balcone all’altro, siedono sui gradini delle loro case, i bambini giocano a strattonarsi.

Ad un tratto alzo lo sguardo e scorgo un lampione decorato con cartelli neri, mi indicano una direzione e recano delle scritte verdi e arancioni:

IO VIAGGIO NON PER ANDARE DA QUALCHE PARTE, MA PER ANDARE.

ALCUNI LUOGHI SONO UN’ENIGMA.

ALTRI UNA SPIEGAZIONE.

Proseguo, altre scale… poco più sotto un altro lampione:

VIAGGIARE SIGNIFICA AGGIUNGERE VITA ALLA VITA.

RACCONTARE STORIE.

CONOSCERE PERSONAGGI.

Ora capisco, che scema! Avrei dovuto intuirlo subito! Il cielo sopra i Vicoli è un chiaro omaggio a Wim Wenders e questi cartelli ne sono la prova eclatante.

Sono eccitata e continuo la discesa.

Oramai il sole è quasi tramontato quando lo strettissimo vicolo si apre in una meravigliosa e candida piazza. Basoli, scale, case, chiese, muretti ogni cosa è bianca e contrasta con il canyon sullo sfondo: un lama di roccia calcarea scavata dalle acque meteoriche. E’ profondo, scosceso, inquietante ma inverdito dalla vegetazione e popolato da cavità, le case rupestri. Sulla parete opposta del canyon, domina la scena un castello medievale, arroccato sul tufo.

Un gruppo di ragazzi trasforma la piazza in una sala cinematografica: proiettori, casse, sedie, cuscini, manifesti… sembrano non fermarsi mai, salgono/scendono, montano/smontano; nelle loro gambe la fatica, nelle loro braccia lo sforzo, ma nei loro occhi è visibile solo la gioia e la soddisfazione di chi mette il proprio tempo al servizio della sua terra. Conosco bene quella sensazione: ti sfianca e ti rimette in circolo la linfa vitale, una non esclude l’altra è incredibile!

Prendo uno spritz, mi metto a sedere sulle lunghissime scale che occupano un lato della piazza e continuo ad osservare gli “asserragliati”; ad un certo punto ho anche pensato di dargli una mano, so bene quanto sia preziosa la collaborazione di qualsiasi volontario, ma so anche un’altra cosa importante: stasera è l’ultima! Da domani tutto sarà finito e sono sicura che ognuno di quei ragazzi sentirà il vuoto e la mancanza di tutto questo, anche della fatica! Quindi mi godo il paesaggio e leggo il programma completo del festival rammaricandomi delle serate precedenti perse.

Nel frattempo gli spettatori cominciano a popolare il cinema all’aperto, tutto è pronto!

E’ sera, alzo gli occhi e Meraviglia!

Le case bianche sono ornate di neon fluorescenti. Su una delle case stratificate nella roccia, la più alta, svetta una struttura geometrica arancione illuminata dalle lampade di wood, si contrappone al forte normanno: è una mongolfiera. Simbolo del festival, regina della serate, illumina il canyon e fa sognare ogni viaggiatore incantato.

Parole verdi, gialle, blu e fucsia e, sulla mia testa un’enorme scritta al neon mi ricorda: i viaggi sono i viaggiatori.

“Estasi” di Matteo Fioretti – Workshop 2015/2016

Freddo.

Una superficie gelida premeva sulla sua guancia.

Socchiuse gli occhi, cercando di mettere a fuoco la realtà che la circondava. La prospettiva era strana, il mondo non era come sarebbe dovuto essere.

Chiuse gli occhi, premendo le palpebre con forza.

Li riaprì.

Un istante di confusione, le pupille si stavano adattando alla luce abbagliante che la avvolgeva, poi le cose ripresero forma.

Era a terra, sdraiata, non capiva perché.

Il pavimento di granito chiaro, ruvido, le graffiava appena il viso. Le faceva male.

Volse lo sguardo sopra di lei. Una nuvola si stagliava contro il cielo azzurro, di un nitore abbagliante nella luce di una splendida giornata di luglio.

Due sagome imponenti limitavano la sua visuale, si protendevano verso l’alto, meravigliosamente esili ma al tempo stesso solide, piene, perfettamente geometriche nella loro forma ma leggermente sghembe nella loro reciproca disposizione.

Il potente bagliore solare mostrava in tutto il suo splendore il loro colore profondo, rosso, come il sangue, ma non uniforme, steso in maniera irregolare, materico.

Li riconobbe, erano due enormi muri. Di cemento, senza dubbio. La sua gamba destra era appoggiata su uno di essi e poteva riconoscere distintamente la durezza e la ruvidità del materiale.

Dove si trovava?

Chiuse di nuovo gli occhi, premendo le palpebre ancora più forte, cercando di ricordare come mai era sdraiata a terra, perché non riconosceva lo spazio geometrico in cui si trovava, come vi era arrivata.

Nero, profondo.

Strinse ancora più forte, piccoli lampi di luce balenarono nelle profondità della sua mente.

Non ricordava.

Li riaprì.

La luce era abbagliante, voleva sapere dov’era, esplorare l’ambiente intorno a lei.

Provò ad alzarsi, puntellando le mani sul pavimento,  ma le forze l’avevano abbandonata. Era ferma lì, in uno scenario apparentemente lunare eppure tremendamente familiare.

Fissò con attenzione le sagome che si stagliavano contro l’azzurro del cielo.

Altre nuvole si avvicendavano tra loro contro il cielo splendente.

Un lampo, nella sua mente.

Un’immagine, netta.

Era lei stessa, seduta ad un tavolo, stava disegnando, ma non era un disegno qualsiasi, non era una figura umana, ne tantomeno un paesaggio naturale, ne tantomeno un animale.

Era una forma, apparentemente senza senso. Un bozzetto fatto a mano, a carboncino, sull’onda di un’ispirazione profonda, coinvolgente, entusiasmante.

Si concentrò sull’immagine, ancora impressa nella sua mente.

Disegnava, si trovava in un ambiente ampio, luminoso, una grande finestra davanti al tavolo a cui sedeva, gli alberi fuori si muovevano placidamente.

Un altro lampo.

Pareti ricoperte di foto, lei che le osservava, le scrutava.

Una serie di lampi. Il Guggenheim di Bilbao, quello di New York, Frank Lloyd Wright, la casa sulla cascata, Mies van der Rohe, ville Savoy, Le Corbusier, casa Battló, la Pedrera, le unità d’abitazione, Libeskind, il decostruttivismo, il cemento, il brutalismo.

Il brutalismo.

Era il suo stile architettonico preferito. Masse di cemento a vista strategicamente posizionate nell’evidenziare la robustezza e il vigore delle strutture, con l’unico obiettivo di mostrare con la massima plasticità la vera essenza di alcune delle più originali e controverse architetture del Novecento.

Il filo dei ricordi iniziava a dipanarsi nella sua mente.

Si concentrò.

Un applauso, forte, scrosciante.

Era sul palco, la sala era piena, la platea entusiasta. Aveva appena terminato di esporre la sua idea, il suo progetto, a quel pubblico di esperti e di accademici che nei mesi precedenti aveva profondamente temuto ma che al tempo stesso desiderava stupire, meravigliare con qualcosa che sarebbe entrato nella storia. Desiderava ardentemente ottenere il massimo riconoscimento per i suoi sforzi, per il suo impegno e il suo lavoro e in quel momento, quando la sala era esplosa quell’applauso scrosciava con forza inaudita nelle sue orecchie, cancellava la tensione che la pervadeva e la ripagava profondamente per ciò che era stata in grado di realizzare.

Il vincitore del concorso sarebbe stato annunciato di li a poco, non ne aveva la certezza, ma nutriva in sé la fiducia che sarebbe stata lei a vedere realizzato il suo progetto.

La cerimonia di premiazione avvenne in maniera concitata. Nei suoi ricordi, almeno. I concorrenti venivano annunciati uno per uno, l’attesa, la suspense, la fiducia instillata in lei dall’applauso e la paura tremenda che le sue aspettative potessero essere tradite. Poi l’annuncio.

Era lei.

Aveva vinto.

La commissione giudicante aveva scelto lei, il suo progetto. La sua idea sarebbe diventata realtà, sarebbe stata realizzata nel corso dell’anno successivo. Il progetto per il nuovo auditorium avrebbe portato la sua firma, la firma di una giovane progettista emergente che nella vita non aveva ancora realizzato nulla ma che con il suo stile aveva intenzione di lasciare per sempre un segno nell’architettura contemporanea. Quello era il suo blocco di partenza, il primo passo di una carriera che sperava potesse portare enormi successi, e non poteva aspirare a nulla di meglio. Era felicissima e i ricordi di quel momento si facevano improvvisamente confusi nella sua mente, sfumati, ma meravigliosi.

Il ricordo svaniva e riprendeva forma nella sua mente.

Aveva passato i successivi due anni a stretto contatto con i responsabili del cantiere. Voleva che tutto fosse esattamente come l’aveva immaginato, come la sua visionaria fantasia l’aveva concepito e trasmesso prima su carta, sui bozzetti, poi sui disegni esecutivi e infine nella realtà, plasmando quel materiale apparentemente massiccio e inamovibile che è il cemento al fine di realizzare la sua massima volontà artistica. Le forme, i colori, le superfici, gli spazi, i punti di vista che l’auditorium doveva offrire avevano nella sua mente l’unico scopo di suscitare emozioni, trasportare l’immaginazione, offrire spunti di riflessione. Doveva essere qualcosa di più di un semplice manufatto edilizio, doveva avere un significato intrinsecamente metafisico, qualcosa che andava oltre lo spazio e il tempo percepibili.

E così era.

Quella domenica il cantiere era chiuso, ma lei aveva le chiavi ed era autorizzata ad accedere. I lavori erano terminati sia negli spazi esterni che in quelli interni e l’inaugurazione ufficiale sarebbe avvenuta dopo poche settimane, giusto il tempo di smobilitare le strutture degli operai e tutto il mondo avrebbe potuto percepire le stesse sensazioni che lei stessa aveva provato nell’immaginarlo.

Si trovava nella piazza esterna, le lastre di granito chiaro, sabbiate, rilucevano sotto la potente luce del sole. Volse lo sguardo intorno a sé. Le vasche per le fontane erano già state riempite, la leggera brezza increspava appena la superficie, creando mutevoli effetti di luce. La facciata si stagliava con forza contro il candore del pavimento, due muri alti, compatti, materici, di cemento tinteggiato non uniformemente di un intenso colore rosso. Il contrasto era netto, potente, energetico. Percepiva la forza che i cromatismi trasmettevano.

Si tolse le scarpe, voleva percepire appieno l’energia che proveniva da quel luogo. Sentiva la ruvidità della pietra sotto i suoi piedi.

Fece alcuni passi, chiudendo gli occhi e apprezzando l’aria appena rinfrescata dall’acqua delle fontane. Si diresse verso la facciata principale. La prospettiva cambiava ad ogni passo, regalandole nuove sensazioni. Sentiva una profonda soddisfazione dentro di lei, ogni punto di vista, ogni scorcio le trasmetteva esattamente le stesse sensazioni che aveva provato nell’ideare quegli spazi, quelle strutture. Seguiva il profilo della facciata, sfiorando la parete con la punta delle dita. La superficie era irregolare, asciutta, le asperità si susseguivano una dopo l’altra. Raggiunse il punto in cui le due pareti, sghembe, si sovrapponevano. Erano imponenti, spesse, rigide eppure esili nel loro slanciarsi con forza verso l’alto.

Si fermo un momento ad ammirarle.

Chiuse gli occhi.

La sua visione era diventata finalmente realtà.

Volse lo sguardo verso l’alto, verso il cielo.

Le forze le mancarono.

 

Estasi.

“Lettera di una fuorisede” di Linda Maria Pacifico – Corso 2016/2017

“Cosa ti aspetti?”

Mi sono sentita ripetere questa domanda troppe volte prima della mia partenza. In realtà non avevo una risposta precisa. Quando vivi per tanti anni in una piccola città ed improvvisamente ti ritrovi catapultata, da sola, in una metropoli che fino ad allora avevi solo sognato, non è facile immaginarsi come la tua vita potrebbe cambiare. Avrei trovato forse più ‘confortante’ sentirmi chiedere “Come ti senti?”. Le emozioni, per quanto difficili da esprimere, sono più definite, assodate in noi. Ho sempre amato Roma, la grande città Eterna. Da adolescente godevo le sue bellezze in foto, racconti o brevi gite turistiche. Mi sentivo un po’ come ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’. Ma era un amore utopico, di quello che provi quando ti godi una breve vacanza lontano dagli stress quotidiani. Vivere in questa città, in realtà, è tutt’altro che una favola… È estate… Fa caldo, ma una strana pace, quasi assordante, mi allieva. Qualche macchina mi sfreccia davanti, mentre io mi godo una fresca birra su di un muretto. Adoro questo posto. E’ parte del mio cofanetto personale dei ricordi. Tante le persone che con me hanno condiviso la sua bellezza, ma sono altrettanto tante le persone che prima di me hanno sognato insieme a lui. Un gabbiano si poggia a poca distanza da me. Non ho mai amato particolarmente questi animali, sono impertinenti e ti guardano con aria di sfida, ma hanno un loro fascino mentre volano nella notte tra le luci di Roma. “Non ho niente da mangiare!” gli dico. Il gabbiano mi guarda di sottecchi con quel suo strano becco. Sembra non approvare la mia voce. Dopo pochi istanti apre le sue grandi ali e vola via. Una volta avevo letto un articolo sul Giornale “Roma è un set di Hitchcock ed i killer sono tutti gabbiani”. Sorrido al pensiero. Una leggera brezza accarezza la mia pelle chiara. Di Mediterraneo ho poco e niente. Capelli castani, occhi castani, poca dimestichezza in cucina ed un vero fallimento nella preparazione del caffè. Mi hanno sempre presa in giro per queste mie doti ‘mancanti’. E io rido con chi lo fa, perché ha meravigliosamente ragione!

Il volo di quel gabbiano, per un momento, mi fa tornare alla mente il mare e quelle onde che, da tempo, non sono più limpide. Il pensiero mi suscita una strana carica di adrenalina. Penso alla mia muta invernale e a quella tavola da surf che aspetta solo di tornare in acqua. E incredibilmente sono passati già dieci anni da quando ho lasciato la mia amata terra. Piangevo, lo ricordo. Ero disperata al pensiero di dover affrontare una nuova vita, nuove amicizie, nuovi studi, una nuova casa.

La prima notte non avevo chiuso occhio.

I rumori, quanti rumori. Una città che non dorme mai.

L’eco assordante delle ambulanze risuonava nell’intera stanza e la scelta di una casa vicino l’ospedale non era di certo d’aiuto. Con passo titubante ed un po’ di coraggio ero riuscita, alla fine, a raggiungere con la metro la stazione di Anagnina. Un posto dove, quella stessa mattina a mie spese, avevo scoperto essere una delle zone dove il furto è generalmente all’ordine del giorno. 70€ in contanti più tutte le spese per i nuovi documenti. Tutto sommato, iniziava bene la giornata!

“Mi hanno rubato il portafogli!”. Disperata mi ero rivolta ad una poliziotto che era lì nei paraggi. Mi aveva consigliato di andare alla stazione di polizia più vicina per la denuncia. Il mio sguardo spaesato probabilmente non lo aveva convinto. “Non sei di queste parti vero?” mi aveva domandato. “No, veramente mi sono trasferita da poco. Sono di Caserta” gli rispondo. Non potrò mai dimenticare le sue parole. “E tu da Caserta te fai venì a rubà qui a Roma!?”. Rideva ed io ero allibita ed arrabbiata. Eppure oggi, quando ripenso a quel momento, rido anch’io di sana gola. Quanta ingenuità racchiusa in un’unica persona e quanti pregiudizi infondati.

Ma purtroppo mia cara Roma tu sei così: una vasta distesa di ostacoli e di stress che ti inghiottono se non affili bene le unghie. Intanto, le mie giornate trascorrevano, così, nello sconforto più totale. Ogni mercoledì, terminate le lezioni all’Università, fuggivo con datati treni per tornare finalmente a casa, nella mia vera casa!

Poi è arrivata lei… Si è insinuata in me lentamente… Quella curiosità fanciullesca che ti spinge ad avventurarti alla scoperta dell’ignoto, di tutto ciò che tu fino ad allora avevi solo sognato od immaginato. Una curiosità che mi ha permesso di conoscere Roma nel profondo, di scoprire lati di lei che difficilmente riesci a cogliere ed apprezzare. Realtà estranee e sconosciute alle cittadine. Piccoli dettagli dei quali, una volta scoperta la bellezza, non puoi più farne a meno. Così, quella tristezza che per tanto tempo mi aveva accompagnato, piano piano si era fatta da parte, lasciando spazio alla gioia di vivere in questa città.

Probabilmente se fossi stata romana di origine, tante meraviglie non sarei riuscita ad apprezzarle realmente. Anche le tue disfunzioni, mia cara Roma, mi hanno aiutata nel mio percorso. Il tuo traffico selvaggio mi ha insegnato a guidare, il tuo essere multirazziale e aperta a tutti a rapportarmi con una pluralità di persone molto distanti tra loro, i tuoi mezzi frenetici a gestirmi negli orari e ad organizzarmi in caso di mancanze, la tua vastità a non sentirmi mai fuori luogo e a non scoraggiarmi nel raggiungere la mia destinazione. Ma tu, mia cara Roma, non sei solo questo.

Hai il dono di offrire tanto a chi tanto forse

non l’ha mai avuto.

Tu offri la possibilità di cambiare, di scegliere, di vivere come tu decidi di vivere.

E così, dal familiare baretto sotto casa agli sconfinati ed infiniti luoghi nei quali trascorrere le mie giornate, passando per i meravigliosi anni universitari e lavorativi, Roma è divenuta per me una seconda casa, un luogo che mi ha ospitata per molti anni e ha modellato la mia vita, trasformandomi nella persona tenace ed ambiziosa che sono ora. Mia cara Roma, purtroppo domani dovrò partire, lontana da te. Mi chiedono, ancora una volta, cosa mi aspetto da questo viaggio senza ritorno. Non ho una risposta precisa, ma ora sono certa di poter dare una risposta a quella stessa domanda che dieci anni fa mi posero.

Tutto quello di cui avevo bisogno, tu sei riuscita a darmelo. Tristezza, amore, felicità, rabbia, soddisfazioni e fallimenti, ma anche voglia di vivere e di scoprire realtà distanti da me. Grazie ai tuoi insegnamenti, sono certa che affronterò questa nuova esperienza con una consapevolezza maggiore e diversa di me. Ti avevo odiato Roma bella, tanto. Mi avevi portata via dalla mia casa, dalla mia famiglia, dal mio mondo. Ma adesso che sto per andare via, provo le stesse emozioni di quando sono arrivata. Il pensiero di non rivederti più, per non so quanto tempo, mi lascia un nodo alla gola.

Il profumo di quel mare poco limpido, il volo dei gabbiani, la maestosità dei tuoi monumenti e l’ironia dei tuoi abitanti li custodirò gelosamente nel mio cofanetto personale dei ricordi. Tutti motivi in più per ritornare, un giorno, da te.

Ciao Roma Bella Linda Maria Pacifico

“OTTO – Behind the scenes” di Caterina Appignani, Raffaello Cotti, Viola Giannerini, Paola Edvige Piras, Paola Sorato, Andrea Trono – Corso 2016/2017

OTTO – Behind the scenes

di Caterina Appignani, Raffaello Cotti, Viola Giannerini, Paola Edvige Piras, Paola Sorato, Andrea Trono

 

Quando penso a qualcosa, quando immagino qualcosa, lo faccio sempre attraverso una sequenza di immagini. Per ognuna di esse individuo colori, inquadrature, movimenti e stacchi. La mia descrizione di un mood o di una sensazione passa sempre attraverso l’elaborazione del fotogramma, di un fermo immagine che in un’unica composizione possa racchiudere tutto, di una colonna sonora che a partire dalla parte più bassa dello stomaco possa convogliare questa vibrazione e dare forma ai pensieri più impalpabili.

Otto è stato un pretesto, la scusa perfetta per poter raccontare un punto di vista, la sensazione di quel momento o semplicemente tutto quello che si era sedimentato in questi mesi.

Il punto di partenza è stata una domanda, la stessa che abbiamo cercato di far emergere dalle immagini. Se non ci fosse una conseguenza per tutto ciò che facciamo? O meglio, se cambiando l’ordine delle cose poi alla fine si giungesse sempre allo stesso risultato? D’altronde anche l’algebra ci viene in aiuto, con uno dei teoremi più elementari di tutti, che abbiamo imparato a conoscere sin dalle prima lezioni di matematica: “cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia”, la proprietà commutativa.

Cosa succede allora se si prova ad applicare questa proprietà anche ai gesti quotidiani, alla reiterazione delle situazioni, alla ciclicità della giornata?

Non si intende dare un giudizio, e tantomeno una soluzione o la formulazione di un altro teorema, ma solo analizzare questo dubbio e dare forma a uno scenario algebrico.

Otto, ragazzo dal nome palindromo, simmetrico e simbolo di infinito, definisce i suoi tratti attraverso le immagini delle scene e lo sviluppo della sua storia.

“Otto non sapeva perchè i suoi genitori gli avessero dato quel nome, forse era un suo avo, o semplicemente qualcuno che non conosceva. Otto si sentiva intrappolato nella reticente circolarità di quel nome, come se esso si portasse dietro una immodificabile gestualità dal quale non riusciva ad uscire. Viveva solo, ma in quella casa il verde delle pareti anni ‘60 era più ingombrante della sua barba. “

Da questa suggestione nasce il personaggio interprete del nostro racconto visivo. Per poterlo definire, tuttavia, è stato necessario un lungo processo di elaborazione e sviluppo del concept, di scrittura e ricerca visiva, fino a giungere al momento topico della creazione dell’immagine stessa. L’atto più inteso e viscerale, dove tutto si completa e prende forma, si esaurisce con la manipolazione delle sequenze, le stesse capaci di dare vita all’universo impercettibile di Otto.

di Caterina Appignani

Ho voluto immortalare attimi, che adesso saranno lì, e si potranno rivedere fra un po’ di tempo, quando nella memoria resterà solo il corto visibile su un canale Vimeo, le foto saranno lì a ricordarci quanto è stata lunga quella giornata di riprese, quanto ci siamo impegnati e come abbiamo lavorato bene in quella giornata!

In ogni caso, oltre i ricordi che resteranno e la riuscita del nostro corto, OTTO non rappresenterà forse l’inizio del mio roseo futuro da direttore della fotografia ma sono certa abbia funzionato come trampolino di lancio per una lunga e proficua collaborazione con una grande Art Director, si chiama Caterina Appignani e ne sentirete parlare….

di Paola Edvige Piras