“Caduta Libera” di Marianna Marzano – Workshop 2016/2017

 “Questa è città è dannatamente bella” pensai. Guardavo Roma dal finestrino con aria sognante e mi sentivo come dentro un film. Una frenata brusca dell’autobus mi riportò alla realtà: ero in ritardo. Scesi velocemente dall’autobus. Sentivo l’adrenalina crescere ad ogni passo: era il grande giorno. Stavo per incontrare un cliente importante, un pezzo grosso: erano mesi che bramavo una promozione e quell’incontro era la mia occasione.

Iniziai a correre. Mi inoltrai in una via a caso sperando di ricordarmi la strada. Con il tipico ed incosciente ottimismo dei ritardatari continuavo a ripetermi che ce l’avrei fatta, che sarei riuscita ad arrivare in tempo. Correvo all’impazzata e la gente per strada mi guardava incuriosita, forse chiedendosi quale fosse il motivo talmente importante in grado di farmi correre in quel modo.

Me lo chiesi anche io. Qual’ era il motivo? Da mesi correvo dietro a quella promozione. La verità è che dovevo a tutti costi dimostrare a me stessa di potercela fare. Lo facevo da sempre: ero sempre alla ricerca di qualcosa da raggiungere per affermarmi, per poter dire di essere qualcuno. La laurea, un concorso, una promozione: ogni volta non era mai abbastanza, ogni volta raggiunto un obiettivo ne trovavo un altro e lo inseguivo con altrettanto affanno. A volte mi sembrava di correre e non arrivare mai. Mi sembrava di inseguire la vita e quando pensavo di averla raggiunta, afferrata, capita, lei invece era già ripartita.

Mi chiesi dov’ero io in tutto questo. Mi chiesi se potevo dire di conoscere davvero quella persona che guardavo ogni mattina allo specchio. Mi chiesi se mi fossi mai fermata ad ascoltare la mia voce, quella vera, quella profonda. La voce dei i desideri, quella che ti sussurra piano cosa vuoi veramente e per ascoltarla devi fermarti un attimo e abbassare il rumore del mondo. Oltre i premi, gli attestati e riconoscimenti, chi ero io? La verità è che per essere qualcuno mi ero dimenticata di essere.

Successe tutto molto velocemente. Persa nei miei pensieri non mi ero accorta del gradino. Mi ritrovai a terra e sentii la sensazione dei sampietrini freddi sul viso.

“Tutto bene, signorina?” un anziano signore mi si avvicinò preoccupato tendendomi una mano.

“Benissimo, grazie!” dissi con finta convinzione mettendomi in piedi. Gli sorrisi forzatamente e lui se ne andò confuso. Mi rialzai in fretta, pronta a proseguire la mia corsa, ma un dolore alla caviglia mi costrinse a fermarmi. Mi appoggiai al muro e mi arresi.

Mi guardai intorno: ero in una piazza piuttosto piccola, al centro c’era una fontana. Non era maestosa né di una bellezza appariscente, ma possedeva una grazia speciale. La base era composta di conchiglie, mentre degli angeli sorreggevano la vasca contornata da piccole tartarughe. Sentivo nel silenzio il rumore dell’acqua che sgorgava veloce. Mi resi conto di non aver la più pallida idea di dove fossi, nonostante conoscessi piuttosto bene quella zona.

Improvvisamente un profumò mi rapì. Mi lasciai trasportare da quell’ odore inebriante e mille ricordi riaffiorarono nella mia mente. “Cornetti appena fatti” pensai sorridendo tra me e me. Il mio sguardò si posò sulla visuale della piazza. Vidi le persone affrettarsi per cominciare la loro giornata: mi divertii ad immaginare le loro vite, ipotizzare su dove fossero diretti e se ci fosse qualcuno ad aspettarli. Vidi un barbone avvicinarsi alla spazzatura alla ricerca della sua colazione. Una giovane ragazza con un passeggino mi passò accanto. Guardai al suo interno e incrociai lo sguardo di un bambino. Mi fissò intensamente, come solo i bambini sanno fare. Mi guardò fino in fondo senza paura, senza maschere, senza protezioni. Mi fissò con un’intensità tale che mi sentii come se mi potesse leggere dentro. Mi sentii come se quello sguardo mi stesse restituendo qualcosa che avevo perso.

Immaginai che il mio cliente fosse ormai andato via da un pezzo, ma non mi importava. Era una meravigliosa mattina di novembre. L’aria era frizzante e mi stuzzicava la pelle. Una luce dorata illuminava i palazzi rendendoli vivi e sensuali. Chiusi gli occhi e sentii il tepore caldo del sole sulla pelle. Mi ricordai di essere, e di esserci.

All’improvviso mi tornò in mente quella frase: “E’ il viaggio che conta, non la destinazione”. Respirai forte e l’aria fredda mi entrò nei polmoni. Mi sentii viva. “Buon viaggio” augurai a me stessa.

 

 

Marianna Marzano

 

“Foglio bianco” di Margherita Curti – Workshop 2016/2017

Il vento, pungente, sferzava il piccolo viso tondo di Lea, che imperterrita ignorava gli avvertimenti della madre e continuava a sporgere la testa dalla ringhiera gelida. La madre la reggeva con forza per un braccio, tirandola a sé e ripetendole: “Non guardare giù!”, come se Lea avesse paura del vuoto, dell’altezza, o dell’oceano nero come la pece che ruggiva contro le pareti della nave. Ma Lea non aveva paura di tutto questo, e perciò continuava a guardare giù piena di curiosità. Suo padre probabilmente non si sarebbe preoccupato tanto, ma del resto Lea non ne era più tanto sicura. Non lo vedeva da più di un anno, ormai, ma la mamma diceva sempre a lei e a Michael che prima o poi lo avrebbero raggiunto “dall’altra parte”. Lea aveva dovuto salutare tutte le amiche a scuola dicendo loro che non sapeva quando sarebbe tornata, e ricordava perfettamente lo sguardo strano che le aveva rivolto la maestra quando se n’era andata, come se sapesse benissimo dove erano diretti lei, la madre e il fratello e capisse perfettamente la situazione. In realtà, sembrava anche che sapesse qualcosa che Lea ignorava, ma la bambina non si era fatta troppe domande. “Su, scostati dalla ringhiera. Andiamo a vedere dove diamine si è cacciato tuo fratello.”, disse improvvisamente la madre, parlando in yiddish e tirandola via con sé. Lea la seguì controvoglia lungo il ponte della nave, dove decine di uomini e donne se ne stavano appoggiati al bordo, a guardare l’oceano e l’orizzonte che, quasi spaventoso, si estendeva, vuoto, a ogni lato della nave. Scivolando di tanto in tanto sul legno bagnato, Lea urtava senza volerlo alcuni di loro, che le rivolgevano uno sguardo infastidito per poi tornare a ignorarla e a guardare lontano.

La madre di Lea mollò improvvisamente la presa sul suo braccio per correre dietro a una scialuppa, dove Michael si era nascosto per tirare sassolini al di là della ringhiera.  “Oyfhem! Oyfhem, shmo!” iniziò a gridare, incurante degli sguardi curiosi degli altri passeggeri, tirando il figlio per un braccio e portandolo in un angolo per sgridarlo come si deve. Sembrava quasi di stare a casa, a Varsavia, quando  dopo cena Michael veniva privato della sua porzione di lekach come punizione per aver marinato la scuola, ed era costretto a salire in camera sua senza fiatare, mentre Lea mangiava la sua fetta di torta al miele con uno strano senso di colpa.

Ad un tratto, Lea si accorse che una bambina con gli occhi chiari la stava guardando con insistenza da chissà quanto tempo. Era seduta su una panca di legno, lì sul ponte, e si reggeva ai bordi come terrorizzata all’idea di scendere e avvicinarsi al parapetto.

“Ciao! Vuoi venire a giocare con me?” le chiese Lea, parlando tedesco.  Qualcosa le diceva che la bambina avrebbe capito; forse, il fatto che le ricordava la sua amica Anastazia, con quei capelli biondi un po’ arruffati, e quell’aria guardinga e sospettosa. La bambina continuò a fissare Lea, come riflettendo se valesse la pena o meno risponderle. “No. Mia mamma non vuole che mi allontani dalla panchina. Dice che cadrò in acqua e lei andrà a New York senza di me.”, rispose lentamente, in tedesco. “Capisco.”, disse Lea senza nascondere la sua delusione. La bambina la squadrava in silenzio. “Che strani i tuoi capelli, chi te li ha pettinati cosi?”, le chiese improvvisamente. Lea si toccò le trecce castane. “Queste me le fa mia madre. Dice che una bambina come me deve portare le trecce.” “Come te? Che vuol dire come te?” Lea tacque un attimo, presa in contropiede. “Come me e basta!” replicò un po’ indispettita. Poi saltò a sedere sulla panchina, accanto alla bambina bionda. “Sei contenta di andare a New York?” le chiese, indicando con un cenno del capo l’orizzonte sconfinato. “No! La odio, la odio, la odio! Volevo restare a casa e andare a scuola lì con le mie amiche. Non conosco nessuno a New York.”. Lea sussultò, ricordandosi di colpo che neanche lei conosceva nessuno, e che non sapeva quando avrebbe rivisto Anastazia e le altre bambine. “E da dove vieni?” chiese Lea. “Dresda.”, rispose la bambina bionda con una punta di malinconia. “Io li odio, i miei genitori. Mi hanno portato via tutto. Adesso non ho più niente.”, aggiunse. Lea avvertiva sempre di più il peso delle sue parole. E lei? Che cosa aveva lei, ora? La madre aveva costretto lei e Michael a buttare via praticamente tutti i giocattoli che avevano, perché non potevano portarli via in valigia. L’aveva costretta a lasciare a Varsavia molti dei suoi abiti, che erano stati regalati a una cugina lontana perché a New York le bambine si vestono diversamente, e Lea avrebbe dato troppo nell’occhio. Probabilmente a New York non avrebbe trovato delle amiche con cui parlare in yiddish, né tantomeno in tedesco. Nessuna lingua, nessun vestito, nessun giocattolo. Nessun’amica. E allora cosa le restava?

Di colpo Lea avvertì un moto di rabbia verso sua madre per aver trasformato lei e Michael in due nullità, due pupazzi vuoti, due fogli bianchi, cancellando tutto.

Improvvisamente, l’oceano che circondava la nave e dal quale prima si sentiva cullata le sembrò minaccioso, profondo e sconosciuto. L’orizzonte, così libero e vuoto, come una linea tracciata con un righello, le apparve assurdo e desiderò intensamente vedervi apparire un qualsiasi oggetto, un’isola, la sagoma di un’altra nave, una catena montuosa, qualsiasi cosa che potesse spezzare quella riga. La bambina bionda, che non si curava di lei e continuava a reggersi al bordo della panchina, le sembrò un foglio bianco, un contenitore vuoto, e la nave le apparve improvvisamente carica di contenitori vuoti come lei, pronti ad essere trasportati dove qualcuno li avrebbe riempiti di nuovo. Lea sentì la testa girare, e le gambe estremamente pesanti. Saltò giù dalla panchina e iniziò a correre sul ponte, e quando trovò un punto libero sul parapetto dove potersi aggrappare si accovacciò, poggiando la fronte sulla ringhiera gelata. Rimase per qualche minuto a fissare il riflesso del suo occhio sul metallo lucido, sentendosi stranamente più calma. Si aggiustò sulle spalle le trecce castane, reggendosi fermamente alla ringhiera. Si allisciò la gonna grigia, mise una mano nella tasca del cappotto e tastò un piccolo bottone dimenticato, che si era staccato chissà quanto tempo prima da una delle sue camicette. Ispirò profondamente cercando di ricordare la camicetta, e in che occasione l’avesse indossata, e i complimenti che le avevano fatto le sue amiche a scuola. Le gambe non erano più tanto pesanti, e l’orizzonte non sembrava più così assurdo e vuoto. Le venne quasi da sorridere rendendosi conto che non era affatto una nullità, né tantomeno un foglio bianco.

“All’apparir del vero” di Ludovica Esposito – Workshop 2016/2017

È già un mese che il circo è arrivato in città, eppure anche oggi è affollato come quel primo giorno in cui ha attirato frotte di visitatori incuriositi da tutti quei manifesti affissi in giro e desiderosi di scoprire la novità che portava con sé.

Lo spettacolo principale tenuto nell’imponente tendone centrale con gli spericolati acrobati che sfidano la gravità in esibizioni volanti non è ancora iniziato, ma la gente si è anticipata perché anche all’esterno c’è sempre qualcosa da vedere: grandi e piccini sono attratti dai mille colori e profumi che inondano lo spazio recintato in cui è stato autorizzato l’allestimento del circo.

Tutti restano a bocca aperta davanti ai selvaggi animali africani, i possenti leoni signori della savana, o alle misteriose tigri bianche, felini in via di estinzione che non sarebbe possibile vedere senza un viaggio in un altro continente. I visitatori li guardano ammirati anche se si limitano a stare distesi e sonnecchiare, si ammassano intorno ai loro recinti e sostano troppo a lungo accanto alle loro gabbie levando esclamazioni stupite quando una delle belve muove la coda per scacciare le fastidiose mosche che le ronzano intorno.

I pagliacci dai buffi costumi colorati si aggirano tra la folla, i bambini scoppiano a piangere al loro passaggio e i genitori cedono a comprare dello zucchero filato per farli smettere, perché dopotutto è una giornata di festa e possono fare uno strappo alla ferrea regola del non esagerare con i dolci.

E poi c’è la casa degli specchi. Le persone entrano e ammirano i propri riflessi, si divertono a vedersi più alte, più basse, più magre, più grasse. Scattano foto per ricordare quel nuovo momentaneo aspetto diverso e poi mostrarlo agli amici rimasti a casa che magari convinceranno a venire a vedere dal vivo il prossimo fine settimana, se il circo sarà ancora lì.

Qualcuno nota un tremolio nel proprio riflesso, ma dura meno di un battito di ciglia e crede di averlo immaginato, così lo ignora e torna a scherzare con i compagni.

Le risate vengono d’un tratto interrotte da una voce all’interfono che chiede ai gentili ospiti di dirigersi con calma all’uscita; i visitatori sono tardi a reagire e la scossa successiva alla prima che quasi nessuno aveva sentito li coglie impreparati. Quella seguente è ancora più forte; le persone si accalcano verso l’uscita. Qualcuno urla. Qualcuno cade.

Uno specchio va in pezzi.

“Ho vissuto tante vite” di Olga Piro – Workshop 2015/2016 (foto di Anna di Prospero)

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Ho vissuto tante vite ma la storia è sempre la stessa: devo rubare del tempo per me. Ne ho così poco che anche per raccontare questa storia, devo estraniarmi di notte dalla vita quotidiana.

Quella che immaginavo fosse la calma, in un angolo remoto, idealista della mia mente, non esiste nella realtà. Io, almeno, posso trovarla solo nella solitudine.

Quando ero bambina, passavo le ore sul letto ad immaginare la mia fantastica vita e quello era il mio gioco preferito.

La mia infanzia non è stata delle migliori, per quanto al mondo ve ne siano sicuramente di peggio.

Pensavo allora che avrei dimostrato a tutti quelli che mi facevano male quanto sarei stata in gamba da adulta.

Volevo diventare una piratessa, un poeta, un condottiero, una spadaccina. Volevo essere un filosofo, un politico e un medico. Sfidando i malvagi, avrei trovato la verità e protetto quelli che amavo.

Non sapevo precisamente questi sogni a quale occupazione sarebbero corrisposti.

Allora io non ero niente ed ero tutto.

Io stavo lì e immaginavo – e leggevo molto per immaginare meglio.

Altre volte, dicevo di studiare ma vagavo per la casa e mi stendevo su di un letto, il mio o quello dei miei, a pensare.

Credo che un letto sia come una barca, le cui fiancate solcano gli abissi dell’animo umano.

Di notte, confesso fino a pochi anni fa, per me al di là del letto c’erano tutte le mie paure. Il pavimento ai miei piedi era un luogo ignoto, solcato da creature nascoste che attendevano che mi assopissi.

Ben diverso era di giorno. Lo è sempre stato, perché di giorno il mio letto è stato il veliero del mio animo. Ho partorito i miei disegni ed affrontato le mie paure, ho pianto chi amavo ed andava via, sono rimasta tenacemente legata al pensiero di coloro che restavano con me.

Capisco ora quei grandi uomini che vivevano nel loro letto, come Proust  o Leibniz, che   quando poteva vi lavorava.

Ma io, molto semplicemente, guardavo dalla finestra fondersi il cielo alla notte. Io immaginavo il soffitto tendersi e partorire il varco che dava all’infinito.

O vedevo le maree dischiudersi al passaggio di un vascello che era il mio slancio verso nuove terre.

O ancora  mi contentavo, invece, di osservare la vita svolgersi di fuori e mi immaginavo correre, correre in un modo allegro, che non potevo fare da sveglia nei giorni peggiori.

E quindi una forza mi attraversava. Vedevo chi volevo essere, la bambina che correva nel sole, la donna che conquistava la sua vita pezzo dopo pezzo. Un giorno, finalmente ebbi il coraggio di solcare quelle vie e camminai mentre mutavano in altre, che non conoscevo. Andai lontano da casa, dal quel letto di bambina e dalla mia finestra. Trascorsero gli anni in Cina, in Africa, in Europa, con lembi di cielo e il mare di tanti paesi diversi.

Ma sempre simile al mio mare interiore, vivido come la forza che raccoglievo immaginando, immenso come il coraggio che ci dona la solitudine.

Ancora oggi dal mio letto il mondo si dispiega. Esso è come una pagina eterna che si srotola, a cui il mio cuore detta il suo divenire.

Esercizio creativo del Workshop di Storytelling tenuto dalla docente Valentina Faloni, in collaborazione con la fotografa Anna di Prospero

“Bonfire Heart” di Federica Fioravanti – Workshop 2015/2016

L e F.

Ricontrollare ossessivamente, quasi, la posizione delle cuffiette prima di metterle era un vizio.

Portone chiuso, play.

Da quando quella canzone era uscita Alex non smetteva di ascoltarla, soprattutto la mattina, quando aveva 10 minuti di camminata, per pensare a ciò che voleva, prima di arrivare in università.

“Days like these lead to, nights like this leads to, love like ours you light the spark in my bonfire heart..” . Non aveva ancora fatto i conti con l’inglese che quella canzone, già solo ad ascoltarla, le rievocava qualcosa, qualcuno, automaticamente e quindi come una droga: repeat. Bonfire heart. Già, quella fiamma che non si spegne mai neppure affogandola. Quell’incendio nel cuore che brucia, anche dopo averlo spento, che riaffiora piccolo piccolo, ma con ardore, dalla cenere.

<< Buongiorno signorina, scusi, il tesserino >>

Fece per tornare indietro e si tolse le cuffiette.

<< Scusi lei, ero distratta, eccolo qui >>

<< Perfetto! Grazie mille e buona giornata >>

<< A lei. >>

Ripose tutto in borsa, in un gesto disordinato e prima di entrare in aula lo fece. Prese di nuovo il telefono, si guardò intorno come a controllare che non ci fosse nessuno pronto a dirle che stava sbagliando, come a controllare che non ci fossero testimoni e le scrisse:“ Tutte le mattine per andare in università ascolto Bonfire heart  e ti penso. Tutte le mattine, ascoltando quella canzone vorrei scriverti un milione di cose, sapere della tua vita nuova in America, ascoltare i tuoi racconti, le tue esperienze, le tue malinconie, le tue soddisfazioni e i tuoi progetti. Ma ogni volta ti penso solo. Penso a quanto ci siamo persi, a quanto ci siamo dati e tolti. Penso a quanto io ti ammiri per ogni cosa che hai voluto e ottenuto senza sbagliare mai e ti stimo, come ho sempre fatto. Ti scrivo perché volevo semplicemente dirti che, nonostante non ci sentiamo da mesi, c’è un pensiero che parla di te in me sempre e che quella canzone mi lega a te con così naturalezza che sembra scritta da noi. È una finestra sulla nostra vita e ascoltarla è come averti qui per 3 minuti e 40 secondi. Ti ho scritto perché domani mattina quando sentirò quella canzone ti penserò ma con un sorriso in più, sapendo che dall’altra parte del mondo, quando anche tu l’ascoterai penserai a quanto io sia sempre la tua solita mascherina. Buonanotte, Alex.”

Fece un bel respiro, una mano sulla maniglia della porta. Invia.

Entrare in quell’aula, adesso, sembrava la cosa più anormale del mondo. Paradossale tornare alla realtà, prendere posto e ascoltare attivamente la lezione mentre dentro una nube scintillante si animava come il fungo di una bomba atomica.

Che infondo quella era scoppiata!

<< Ciao Alex, sono James…>>

<< Jim, sono le 3 di notte, che succede?>>

<< Si lo so, ma sto facendo una cazzata forse e..beh sei il mio migliore amico no? Domani ho un esame e invece sto prendendo un aereo, per Roma. Devo vederla. Coprimi con Annie. Ti porto un souvenir…  >>

<< Che cos..??  Figlio di putt.. ha riagganciato! Al diavolo James..>>

James lascio cadere il telefono in tasca quasi come fosse una liberazione e mentre prendeva posto sul volo 714 New York- Roma, gli arrivò il messaggio, da Alex. Non il suo migliore amico, che l’aveva appena insultato. Da lei, da quella che non riusciva a smettere di pensare da giorni o, forse, da mai. Dalla ragazza che pur non sapendo della sua follia non aveva resistito a farne un’altra, seppur più piccola, scrivendogli.

“Qualunque dispositivo acceso venga spento ora, stiamo per partire, signori”.

<< Chiunque sia, può attendere. Leggerò all’arrivo >>

Intanto a Roma  il cielo andava ad imbrunire e anche Alex. Una giornata completamente paralizzante, una giornata che esplosa come una bomba terminava dentro una bolla.

<< Non imparerò mai. >>

E proprio mentre stava chiudendo il messaggio, che aveva riaperto per la milionesima volta, una risposta disarmante – “ E pensare che non ti pensavo da tanto. E pensare che qualche notte fa ti ho sognata. E pensare che, da quella notte in poi, non mi esci dalla testa. E pensare che ho sperato che tu te ne accorgessi, come per magia. E pensare che te ne sei accorta. E pensare che, anche dall’altra parte del mondo, non esiste una sola giornata di sole invernale, di quei soli che non scaldano né la pelle né tanto meno l’anima, che il mio cuore non si infiammi al tuo ricordo. E pensare che ancora non ho dimenticato il tuo profumo. E pensare che nemmeno sapevo esistesse quella canzone prima di ora. E pensare che riesci ancora, come sempre, a stupirmi. E pensare che siamo gli stessi, non siamo cambiati di una virgola, ancora vicini, anche se ogni volta più distanti. E pensare che fremevo per scriverti, ma non ne trovavo il coraggio. E pensare che, stavolta, sei stata tu a battermi sul tempo, sei stata quella più coraggiosa, anche se solo di qualche ora. Dove sei?”

Il cuore tornava a battere così forte che Alex pensava di bruciare e di spaccarlo per la forza dell’impatto. Anche solo di qualche ora? Dove sei?. Non poteva voler dire quello che sperava ardentemente e insieme con paura. Non poteva essere lì, ora. Non era umanamente possibile la telepatia ma il destino, quello, forse sì.

<< Sto scendendo giù, al mare..ne ho bisogno. Tu? >>

Passò un’altra ora e arrivata al suo rifugio segreto, prima di sedersi e beneficiare della quiete che solo quel posto sapeva regalarle Alex spense il telefono. Perché va sempre così, alla fine.

Dall’angolo della strada poco distante da lei una voce familiare ruppe il silenzio. Quella voce che avrebbe riconosciuto anche da sorda :

<< E pensare che sono qui nonostante domani abbia un esame, nonostante abbia tutta la mia vita domani, in un luogo che non è casa e non è Te. E pensare che ho comprato il volo due giorni fa e ho letto il tuo messaggio solo dopo essere atterrato. >>

Si avvicinava con la sua solita camminata veloce, pronta, sicura. Con il suo solito sorriso deciso e gli occhi che ti squarciano dentro.

<< E pensare a quante cose ci siamo detti quella sera, di ormai 4 anni fa, e a quante ce ne siamo dette dopo, e a quante non ci siamo detti perché non ce n’era bisogno. E pensare che ti avevo detto addio. E pensare che ti avevo chiesto, se fossi andata lontano, che non fosse troppo fuori mano o di trovare un posto irraggiungibile; alla fine me ne sono andato io, prima non troppo fuori mano, poi in un posto irraggiungibile, e non è servito a nulla. E pensare che sono rimasto a guardarti per veramente tanto tempo, cercando una strada per farti mia, e..>>

Era arrivato. Ad un centrimetro dai suoi occhi, labbra contro labbra. I loro ricci si intrecciavano così perfettamente e il tramonto, appena iniziato, donava un colore così omogeneo che sembravano un’unica entità, un’unica fiamma, vorticosa.

Alex lo guardò, piegò leggermente il collo e pose la sua mano sulla sua bocca. Lo zittì così, perché tutto ciò di cui avevano bisogno ora era il silenzio. Ciò che parlava ora era il loro respiro, i loro cuori che all’unisono battevano così forte da generare calore. Come una grande fiamma, silenziosa e ardente.

Alex chiuse gli occhi e lo strinse forte a sé, senza avere il coraggio di togliere la mano dalle sue labbra.

James chiuse gli occhi, respirò a fondo, cercando di rapire tutto il suo profumo da quell’angolo di collo per portarlo via con se, sempre e ovunque.

Non ebbero il coraggio di staccarsi, non ebbero la forza di spegnersi.

“Estasi” di Matteo Fioretti – Workshop 2015/2016

Freddo.

Una superficie gelida premeva sulla sua guancia.

Socchiuse gli occhi, cercando di mettere a fuoco la realtà che la circondava. La prospettiva era strana, il mondo non era come sarebbe dovuto essere.

Chiuse gli occhi, premendo le palpebre con forza.

Li riaprì.

Un istante di confusione, le pupille si stavano adattando alla luce abbagliante che la avvolgeva, poi le cose ripresero forma.

Era a terra, sdraiata, non capiva perché.

Il pavimento di granito chiaro, ruvido, le graffiava appena il viso. Le faceva male.

Volse lo sguardo sopra di lei. Una nuvola si stagliava contro il cielo azzurro, di un nitore abbagliante nella luce di una splendida giornata di luglio.

Due sagome imponenti limitavano la sua visuale, si protendevano verso l’alto, meravigliosamente esili ma al tempo stesso solide, piene, perfettamente geometriche nella loro forma ma leggermente sghembe nella loro reciproca disposizione.

Il potente bagliore solare mostrava in tutto il suo splendore il loro colore profondo, rosso, come il sangue, ma non uniforme, steso in maniera irregolare, materico.

Li riconobbe, erano due enormi muri. Di cemento, senza dubbio. La sua gamba destra era appoggiata su uno di essi e poteva riconoscere distintamente la durezza e la ruvidità del materiale.

Dove si trovava?

Chiuse di nuovo gli occhi, premendo le palpebre ancora più forte, cercando di ricordare come mai era sdraiata a terra, perché non riconosceva lo spazio geometrico in cui si trovava, come vi era arrivata.

Nero, profondo.

Strinse ancora più forte, piccoli lampi di luce balenarono nelle profondità della sua mente.

Non ricordava.

Li riaprì.

La luce era abbagliante, voleva sapere dov’era, esplorare l’ambiente intorno a lei.

Provò ad alzarsi, puntellando le mani sul pavimento,  ma le forze l’avevano abbandonata. Era ferma lì, in uno scenario apparentemente lunare eppure tremendamente familiare.

Fissò con attenzione le sagome che si stagliavano contro l’azzurro del cielo.

Altre nuvole si avvicendavano tra loro contro il cielo splendente.

Un lampo, nella sua mente.

Un’immagine, netta.

Era lei stessa, seduta ad un tavolo, stava disegnando, ma non era un disegno qualsiasi, non era una figura umana, ne tantomeno un paesaggio naturale, ne tantomeno un animale.

Era una forma, apparentemente senza senso. Un bozzetto fatto a mano, a carboncino, sull’onda di un’ispirazione profonda, coinvolgente, entusiasmante.

Si concentrò sull’immagine, ancora impressa nella sua mente.

Disegnava, si trovava in un ambiente ampio, luminoso, una grande finestra davanti al tavolo a cui sedeva, gli alberi fuori si muovevano placidamente.

Un altro lampo.

Pareti ricoperte di foto, lei che le osservava, le scrutava.

Una serie di lampi. Il Guggenheim di Bilbao, quello di New York, Frank Lloyd Wright, la casa sulla cascata, Mies van der Rohe, ville Savoy, Le Corbusier, casa Battló, la Pedrera, le unità d’abitazione, Libeskind, il decostruttivismo, il cemento, il brutalismo.

Il brutalismo.

Era il suo stile architettonico preferito. Masse di cemento a vista strategicamente posizionate nell’evidenziare la robustezza e il vigore delle strutture, con l’unico obiettivo di mostrare con la massima plasticità la vera essenza di alcune delle più originali e controverse architetture del Novecento.

Il filo dei ricordi iniziava a dipanarsi nella sua mente.

Si concentrò.

Un applauso, forte, scrosciante.

Era sul palco, la sala era piena, la platea entusiasta. Aveva appena terminato di esporre la sua idea, il suo progetto, a quel pubblico di esperti e di accademici che nei mesi precedenti aveva profondamente temuto ma che al tempo stesso desiderava stupire, meravigliare con qualcosa che sarebbe entrato nella storia. Desiderava ardentemente ottenere il massimo riconoscimento per i suoi sforzi, per il suo impegno e il suo lavoro e in quel momento, quando la sala era esplosa quell’applauso scrosciava con forza inaudita nelle sue orecchie, cancellava la tensione che la pervadeva e la ripagava profondamente per ciò che era stata in grado di realizzare.

Il vincitore del concorso sarebbe stato annunciato di li a poco, non ne aveva la certezza, ma nutriva in sé la fiducia che sarebbe stata lei a vedere realizzato il suo progetto.

La cerimonia di premiazione avvenne in maniera concitata. Nei suoi ricordi, almeno. I concorrenti venivano annunciati uno per uno, l’attesa, la suspense, la fiducia instillata in lei dall’applauso e la paura tremenda che le sue aspettative potessero essere tradite. Poi l’annuncio.

Era lei.

Aveva vinto.

La commissione giudicante aveva scelto lei, il suo progetto. La sua idea sarebbe diventata realtà, sarebbe stata realizzata nel corso dell’anno successivo. Il progetto per il nuovo auditorium avrebbe portato la sua firma, la firma di una giovane progettista emergente che nella vita non aveva ancora realizzato nulla ma che con il suo stile aveva intenzione di lasciare per sempre un segno nell’architettura contemporanea. Quello era il suo blocco di partenza, il primo passo di una carriera che sperava potesse portare enormi successi, e non poteva aspirare a nulla di meglio. Era felicissima e i ricordi di quel momento si facevano improvvisamente confusi nella sua mente, sfumati, ma meravigliosi.

Il ricordo svaniva e riprendeva forma nella sua mente.

Aveva passato i successivi due anni a stretto contatto con i responsabili del cantiere. Voleva che tutto fosse esattamente come l’aveva immaginato, come la sua visionaria fantasia l’aveva concepito e trasmesso prima su carta, sui bozzetti, poi sui disegni esecutivi e infine nella realtà, plasmando quel materiale apparentemente massiccio e inamovibile che è il cemento al fine di realizzare la sua massima volontà artistica. Le forme, i colori, le superfici, gli spazi, i punti di vista che l’auditorium doveva offrire avevano nella sua mente l’unico scopo di suscitare emozioni, trasportare l’immaginazione, offrire spunti di riflessione. Doveva essere qualcosa di più di un semplice manufatto edilizio, doveva avere un significato intrinsecamente metafisico, qualcosa che andava oltre lo spazio e il tempo percepibili.

E così era.

Quella domenica il cantiere era chiuso, ma lei aveva le chiavi ed era autorizzata ad accedere. I lavori erano terminati sia negli spazi esterni che in quelli interni e l’inaugurazione ufficiale sarebbe avvenuta dopo poche settimane, giusto il tempo di smobilitare le strutture degli operai e tutto il mondo avrebbe potuto percepire le stesse sensazioni che lei stessa aveva provato nell’immaginarlo.

Si trovava nella piazza esterna, le lastre di granito chiaro, sabbiate, rilucevano sotto la potente luce del sole. Volse lo sguardo intorno a sé. Le vasche per le fontane erano già state riempite, la leggera brezza increspava appena la superficie, creando mutevoli effetti di luce. La facciata si stagliava con forza contro il candore del pavimento, due muri alti, compatti, materici, di cemento tinteggiato non uniformemente di un intenso colore rosso. Il contrasto era netto, potente, energetico. Percepiva la forza che i cromatismi trasmettevano.

Si tolse le scarpe, voleva percepire appieno l’energia che proveniva da quel luogo. Sentiva la ruvidità della pietra sotto i suoi piedi.

Fece alcuni passi, chiudendo gli occhi e apprezzando l’aria appena rinfrescata dall’acqua delle fontane. Si diresse verso la facciata principale. La prospettiva cambiava ad ogni passo, regalandole nuove sensazioni. Sentiva una profonda soddisfazione dentro di lei, ogni punto di vista, ogni scorcio le trasmetteva esattamente le stesse sensazioni che aveva provato nell’ideare quegli spazi, quelle strutture. Seguiva il profilo della facciata, sfiorando la parete con la punta delle dita. La superficie era irregolare, asciutta, le asperità si susseguivano una dopo l’altra. Raggiunse il punto in cui le due pareti, sghembe, si sovrapponevano. Erano imponenti, spesse, rigide eppure esili nel loro slanciarsi con forza verso l’alto.

Si fermo un momento ad ammirarle.

Chiuse gli occhi.

La sua visione era diventata finalmente realtà.

Volse lo sguardo verso l’alto, verso il cielo.

Le forze le mancarono.

 

Estasi.

“Lettera di una fuorisede” di Linda Maria Pacifico – Corso 2016/2017

“Cosa ti aspetti?”

Mi sono sentita ripetere questa domanda troppe volte prima della mia partenza. In realtà non avevo una risposta precisa. Quando vivi per tanti anni in una piccola città ed improvvisamente ti ritrovi catapultata, da sola, in una metropoli che fino ad allora avevi solo sognato, non è facile immaginarsi come la tua vita potrebbe cambiare. Avrei trovato forse più ‘confortante’ sentirmi chiedere “Come ti senti?”. Le emozioni, per quanto difficili da esprimere, sono più definite, assodate in noi. Ho sempre amato Roma, la grande città Eterna. Da adolescente godevo le sue bellezze in foto, racconti o brevi gite turistiche. Mi sentivo un po’ come ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’. Ma era un amore utopico, di quello che provi quando ti godi una breve vacanza lontano dagli stress quotidiani. Vivere in questa città, in realtà, è tutt’altro che una favola… È estate… Fa caldo, ma una strana pace, quasi assordante, mi allieva. Qualche macchina mi sfreccia davanti, mentre io mi godo una fresca birra su di un muretto. Adoro questo posto. E’ parte del mio cofanetto personale dei ricordi. Tante le persone che con me hanno condiviso la sua bellezza, ma sono altrettanto tante le persone che prima di me hanno sognato insieme a lui. Un gabbiano si poggia a poca distanza da me. Non ho mai amato particolarmente questi animali, sono impertinenti e ti guardano con aria di sfida, ma hanno un loro fascino mentre volano nella notte tra le luci di Roma. “Non ho niente da mangiare!” gli dico. Il gabbiano mi guarda di sottecchi con quel suo strano becco. Sembra non approvare la mia voce. Dopo pochi istanti apre le sue grandi ali e vola via. Una volta avevo letto un articolo sul Giornale “Roma è un set di Hitchcock ed i killer sono tutti gabbiani”. Sorrido al pensiero. Una leggera brezza accarezza la mia pelle chiara. Di Mediterraneo ho poco e niente. Capelli castani, occhi castani, poca dimestichezza in cucina ed un vero fallimento nella preparazione del caffè. Mi hanno sempre presa in giro per queste mie doti ‘mancanti’. E io rido con chi lo fa, perché ha meravigliosamente ragione!

Il volo di quel gabbiano, per un momento, mi fa tornare alla mente il mare e quelle onde che, da tempo, non sono più limpide. Il pensiero mi suscita una strana carica di adrenalina. Penso alla mia muta invernale e a quella tavola da surf che aspetta solo di tornare in acqua. E incredibilmente sono passati già dieci anni da quando ho lasciato la mia amata terra. Piangevo, lo ricordo. Ero disperata al pensiero di dover affrontare una nuova vita, nuove amicizie, nuovi studi, una nuova casa.

La prima notte non avevo chiuso occhio.

I rumori, quanti rumori. Una città che non dorme mai.

L’eco assordante delle ambulanze risuonava nell’intera stanza e la scelta di una casa vicino l’ospedale non era di certo d’aiuto. Con passo titubante ed un po’ di coraggio ero riuscita, alla fine, a raggiungere con la metro la stazione di Anagnina. Un posto dove, quella stessa mattina a mie spese, avevo scoperto essere una delle zone dove il furto è generalmente all’ordine del giorno. 70€ in contanti più tutte le spese per i nuovi documenti. Tutto sommato, iniziava bene la giornata!

“Mi hanno rubato il portafogli!”. Disperata mi ero rivolta ad una poliziotto che era lì nei paraggi. Mi aveva consigliato di andare alla stazione di polizia più vicina per la denuncia. Il mio sguardo spaesato probabilmente non lo aveva convinto. “Non sei di queste parti vero?” mi aveva domandato. “No, veramente mi sono trasferita da poco. Sono di Caserta” gli rispondo. Non potrò mai dimenticare le sue parole. “E tu da Caserta te fai venì a rubà qui a Roma!?”. Rideva ed io ero allibita ed arrabbiata. Eppure oggi, quando ripenso a quel momento, rido anch’io di sana gola. Quanta ingenuità racchiusa in un’unica persona e quanti pregiudizi infondati.

Ma purtroppo mia cara Roma tu sei così: una vasta distesa di ostacoli e di stress che ti inghiottono se non affili bene le unghie. Intanto, le mie giornate trascorrevano, così, nello sconforto più totale. Ogni mercoledì, terminate le lezioni all’Università, fuggivo con datati treni per tornare finalmente a casa, nella mia vera casa!

Poi è arrivata lei… Si è insinuata in me lentamente… Quella curiosità fanciullesca che ti spinge ad avventurarti alla scoperta dell’ignoto, di tutto ciò che tu fino ad allora avevi solo sognato od immaginato. Una curiosità che mi ha permesso di conoscere Roma nel profondo, di scoprire lati di lei che difficilmente riesci a cogliere ed apprezzare. Realtà estranee e sconosciute alle cittadine. Piccoli dettagli dei quali, una volta scoperta la bellezza, non puoi più farne a meno. Così, quella tristezza che per tanto tempo mi aveva accompagnato, piano piano si era fatta da parte, lasciando spazio alla gioia di vivere in questa città.

Probabilmente se fossi stata romana di origine, tante meraviglie non sarei riuscita ad apprezzarle realmente. Anche le tue disfunzioni, mia cara Roma, mi hanno aiutata nel mio percorso. Il tuo traffico selvaggio mi ha insegnato a guidare, il tuo essere multirazziale e aperta a tutti a rapportarmi con una pluralità di persone molto distanti tra loro, i tuoi mezzi frenetici a gestirmi negli orari e ad organizzarmi in caso di mancanze, la tua vastità a non sentirmi mai fuori luogo e a non scoraggiarmi nel raggiungere la mia destinazione. Ma tu, mia cara Roma, non sei solo questo.

Hai il dono di offrire tanto a chi tanto forse

non l’ha mai avuto.

Tu offri la possibilità di cambiare, di scegliere, di vivere come tu decidi di vivere.

E così, dal familiare baretto sotto casa agli sconfinati ed infiniti luoghi nei quali trascorrere le mie giornate, passando per i meravigliosi anni universitari e lavorativi, Roma è divenuta per me una seconda casa, un luogo che mi ha ospitata per molti anni e ha modellato la mia vita, trasformandomi nella persona tenace ed ambiziosa che sono ora. Mia cara Roma, purtroppo domani dovrò partire, lontana da te. Mi chiedono, ancora una volta, cosa mi aspetto da questo viaggio senza ritorno. Non ho una risposta precisa, ma ora sono certa di poter dare una risposta a quella stessa domanda che dieci anni fa mi posero.

Tutto quello di cui avevo bisogno, tu sei riuscita a darmelo. Tristezza, amore, felicità, rabbia, soddisfazioni e fallimenti, ma anche voglia di vivere e di scoprire realtà distanti da me. Grazie ai tuoi insegnamenti, sono certa che affronterò questa nuova esperienza con una consapevolezza maggiore e diversa di me. Ti avevo odiato Roma bella, tanto. Mi avevi portata via dalla mia casa, dalla mia famiglia, dal mio mondo. Ma adesso che sto per andare via, provo le stesse emozioni di quando sono arrivata. Il pensiero di non rivederti più, per non so quanto tempo, mi lascia un nodo alla gola.

Il profumo di quel mare poco limpido, il volo dei gabbiani, la maestosità dei tuoi monumenti e l’ironia dei tuoi abitanti li custodirò gelosamente nel mio cofanetto personale dei ricordi. Tutti motivi in più per ritornare, un giorno, da te.

Ciao Roma Bella Linda Maria Pacifico

“Storytelling. 3 Generazioni” di Federico Ursitti – Corso 2016/2017

Nonna – Storytelling pedagogico

“Buongiorno, mi presento. Sono Nonna Maria e sono una ex-maestra in pensione. E in quanto tale mi sento la più titolata tra noi tre nel raccontarvi una storia che inizia così: c’era una volta una maestra di provincia. Sì. La maestra in questione sono io e voglio concedermi il vezzo ed essere la protagonista della mia favola. D’altronde ci ho fondato una carriera sulle storie, sarò libera, no? Comunque dicevo.. le sue colleghe pensavano fosse un po’ matta perché faceva una cosa che nessuno aveva mai visto in una classe. Sì, sì: spiegava sempre l’alfabeto e i numeri, assegnava i lavoretti e i cartelloni, ma aveva un modo di insegnare che per quegli anni era visto come il fumo negli occhi. Era il 1978 e lei raccontava le storie.

La maestra pensava che tra le applicazioni più importanti dello storytelling ci fosse la pedagogia e il ricorso alle storie per favorire la comprensione e l’apprendimento dei bambini. Proprio per questo per lei per rendere semplice un concetto ricorreva ad una storia o a dei personaggi. La metodologia dello storytelling infatti consisteva – e consiste tuttora – nell’uso di procedure narrative al fine di promuovere meglio valori, idee ed è incentrato sulle dinamiche di influenzamento sociale. La narrazione ha un potenziale pedagogico e didattico, dalla quale reputavo possibile trarre peculiarità educative e formative che contribuissero in maniera notevole all’alfabetizzazione. Il “raccontare” in forma narrativa strutturata mi permise di creare le basi dell’alfabetizzazione, ovvero una prima costruzione di significati condivisi tra adulto e bambino. Fu importante usare tale metodologia sin dalla prima scolarizzazione utilizzando i tipi di testualità adeguati al grado di alfabetizzazione dei bimbi.
 I vantaggi furono molteplici: lo storytelling aveva un carattere affascinante, coinvolgente e gratificante. Inoltre utilizzare le immagini mi permise un accesso più semplice a concetti astratti e complessi, facilitò la memorizzazione dei miei bambini da un punto di vista cognitivo, favorì la conoscenza connettiva e la creatività combinatoria: una storia genera altre storie, favorisce lo scambio collaborativo delle conoscenze, il confronto, lo spirito critico e la ricerca di nuove interpretazioni e punti di vista su un tema.

Recentemente sono tornata nella mia vecchia scuola e ho visto che qualcosa di me ancora è rimasto: al linguaggio analogico e verbale si è unito unisce quello digitale: infografiche, illustrazioni, video.. il potere metaforico è esaltato all’ennesima potenza.
 Lo storytelling è vivo e lotta insieme a noi. E vissero tutti felici e contenti “.

Papà – Storytelling cinematografico

Piacere, io sono il babbo! Mentre mio figlio lavora nella comunicazione e mia mamma lavorava a scuola, io lavoro al cinema. Ma non in biglietteria o ai popcorn, proprio dentro il cinema. Dentro lo schermo! Io sono il cinema, e in particolare il cinema americano! Grazie a me vi siete emozionati, innamorati, indignati. Sono quella particolare disciplina che rende tutte le storie a stelle e strisce così riconoscibili e di successo. Quali sono i tratti tipici dell’american storytelling? Innanzitutto, alla base delle storie hollywoodiane metto sempre una forte ‘tensione drammatica’. La posta in gioco è sempre alta; non è un semplice obiettivo tattico, ma la realizzazione piena: la salvezza di sé, del proprio mondo o del mondo intero. Ed è una posta universale, il cui valore è comprensibile e condivisibile da tutti, senza distinzione di clas se e cultura. Nella conquista della posta, poi, l’azione ha un ruolo di assoluto primo piano edè immancabilmente intrapresa sotto pressione. Altro elemento chiave: tra i personaggi vi è una dialettica viva e profonda. Il nocciolo drammaturgico della narrazione hollywoodiana è il conflitto tra il personaggio centrale e l’Altro. E conferisco al tutto una grande intensità: le mie passioni sono forti, le motivazioni pronunciate, le azioni spettacolari e decisive, comunque vada. Poi condisco la tensione drammatica con un’evidente ‘tensione morale’: al centro dei giochi vi piazzo sempre una forte dialettica bene/male, ingenua magari, ma molto chiara ed efficace. Riguardo poi ai plot, e cioè ai modi in cui organizzo e conduco il racconto, le mie storie (da quelle memorabili a quelle più dozzinali) manifestano sempre una straordinaria capacità di intrecciare/tessere i fili della trama. Nulla di ciò che mostro è senza significato, e se anche in un primo momento non è chiaro, lo diverrà in seguito. Nulla di ciò che è taciuto è importante. Metto grande cura nell’alternare domande e risposte, aspettative e risoluzioni, tensione e distensione; e vi controllo attraverso una scrupolosa ‘semina’ di informazioni, indizi, elementi chiarificatori, che poi sono ‘raccolti’ al momento giusto. In tutto questo, l’azione guida e orienta il racconto, senza che i personaggi si debbano troppo spiegare. Ma la mia cosa preferita è l’idea che la struttura narrativa classica hollywoodiana si fondi, più che sul canonico conflitto tra protagonista e antagonista, sul confronto tra ‘official hero’ e ‘outlaw hero’. L’official hero normalmente lo ritraggo come un family man, maturo ed equilibrato, rappresentante delle istituzioni, integrato nella communitas, di cui sposa i valori di fondo: il rispetto delle regole, il primato dell’interesse comune, il desiderio di radicamento e di condivisione, l’idea di nazione. Per l’outlaw hero, invece, mi piace che incarni i valori individualistici, anticonformistici e libertari. Può essere davvero un fuorilegge (purché alla fine si redima, s’intende), o può essere un ex-fuorilegge che diventa collaboratore delle istituzioni, o ancora un ‘irregolare’, con vizi e problemi che non ne consentono una piena integrazione. In ogni caso, gli cucio addosso un ruolo di outsider, affinché manifesti riluttanza ad integrarsi nella comunità, grande indipendenza di giudizio e poca disponibilità a indulgere all’amore, tutte caratteristiche che lo ricollegano immediatamente all’eroe della tradizione letteraria americana.

Figlio – Corporate Storytelling

Mi presento, sono Story Telling e faccio lo stagista in un’agenzia di comunicazione. Una di quelle agenzie in un edificio di coworking in un loft arredato minimal post-industriale, dove si beve caffè bio a km zero che sa di cicoria, l’imballaggio degli snack – rigorosamente senza olio di palma – è 80% compostabile. La mia azienda è gay-friendly, eco compatibile, green, eco, healthy, e anche un po’ vegan. Due palle. Ma tanto vale arrendervi perché ovunque andrete sarà sempre così, ormai.

Sono l’ultimo arrivato in azienda. A farmi il colloquio un ventiduenne senza nemmeno la laurea che però ‘Ha lasciato tutto e girato il mondo con uno zaino’ come consigliato da un blogger dell’Huffington Post. Mi scrutava, con la sua pipa elettronica, la camicia di flanella a quadri, occhiali tartarugati nemmeno graduati e pantaloni coi risvoltini dai quali usciva una disgustosa caviglia pelosa.

Durante il colloquio mi ricordava di come non voglia nemmeno più sentir parlare delle persone che mi hanno preceduto in azienda. La dottoressa Affissione Cartacea, il professor Spot Radiofonico, l’ingegnere Reclame Televisiva, e il compianto signor Volantino Promozionale, ormai deceduto da anni. Cose preistoriche, secondo lui.

Come dicevo sono molto stanco. Vi racconto la mia giornata.

Ore 9.00 Mi chiamano quelli della birra, quelli della birra danese dai, quella con la bottiglia marrone che.. C’È. Mi dice che gli serve qualcosa per commentare la gaffe del neo sindaco, il look appariscente di questo o quel politico, il Festival di Sanremo, il caso del vestito che ‘ha fatto impazzire il web’ perché non si capisce di che colore sia. Allora inoltro la domanda a quelle creature mitologiche che rispondono al nome di grafici. Mi rispondo ‘Ah StoyTè, ma che ma che c’entra co’ la bira?” (rigorosamente con una R). Gli rispondo che sono dei gretti e ignoranti e che ormai la brand identity di un’azienda passa dal raccontare un’immagine di sé simpatica e sbarazzina. Mi guardano male, ma eseguono, perché i grafici sono molto permalosi, ma sono anche molto servizievoli.

Ore 12.00 mentre stavo twittando cose a casaccio solamente per stare sul pezzo mi chiamano da un’azienda di pasta molto importante. È successo un casino, il proprietario ha detto una cosa invereconda sulle famiglie gay e ora sulle pagine social è un mare di me.. meschini attacchi all’integrità del brand. C’è chi parla di boicottaggio, chi di dare fuoco all’azienda, chi di buttare la pasta nel secchio. Dico al team social di stare calmo, ma i ragazzi sono impazziti. C’è chi prova a soffocarsi con un piatto di fusilli, chi si strozza con un bucatino come Isadora Duncan con il foulard, chi si taglia le vene col lato zigrinato delle farfalle.

Lì ho l’illuminazione: mica so’ il dottor Crisis Management, io so’ Telling, Story Telling!

Allora approfitto della caciara per attaccare il telefono e fare un gruppo di WhatsApp con altre tre aziende di pasta, amici miei con cui sono andato all’Università, e gli do’ l’idea delle idee: ballate sulla carcassa ancora calda della concorrenza con una bella foto sull’amore universale da caricare sui profilo social.

‘Tony Bui, per te una bella foto di una tavola con scritto ‘Siamo aperti a tutte le famiglie, pure quelle dei froci’’ ‘ ‘Voy Ello, tu mi fai due rigatoni che fanno petting spinto’ ‘Snella Vita per te invece due pacchetti di crackers integrali lesbiche che vanno al Gay Pride’ Sono confusi ma accettano. Compiaciuto di me stesso riconosco che anche oggi lo storytelling è salvo.0 Chiamo i grafici, ma è in corso un focolare di ammutinamento: gli dico che se non eseguono posso sempre chiedere a mio cugggino che me le fa gratis. Per irritargli rincaro la dose ‘co’ photoshop ci vogliono due minuti dai’. Col sangue negli occhi accettano.

Ore 15 Mentre il paese è paralizzato attorno alla pasta – che poi i gay i carboidrati manco li mangiano, sai che je frega di boicottare Barilla – accendo la radio per distrarmi un po’. Capito su un notiziario e c’è il nuovo Premier che parla, quello giovane. “La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia” Che? Eh no ciccio, qui non si cambia niente, si fa come dico io, eh. Lo chiamo per mettere subito in chiaro le cose. Mi risponde che vuole posizionarsi come politico pragmatico; spregiudicato comunicatore pop; boy scout militante, icona generazionale, product manager, strategic planner, online content curator. Non capisco l’ultimo, gli rispondo ‘EH?’ e lui ‘CIUPPA!’. Simpatico il Premier! Decido di collaborare: gli spiego che lo storytelling politico è la nuova frontiera della comunicazione, un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Dice che ha capito. Vedremo.

Alle 17.50 inizio a raccogliere i miei effetti personali, tra dieci minuti scappo. Mi chiama Tampax.

Dice che dopo la campagna sulle donne paracadutiste che si lanciano anche in quei giorni hanno bisogno di qualcosa che racconti il mondo degli assorbenti interni con un taglio simpatico ma delicato, non invasivo ma pop, pungente ma soffice, martellante senza dare fastidio. Gli dico che hanno sbagliato numero e che siamo una ferramenta. So’ lo Storytelling, mica Padre Pio!

 

FEDERICO URSITTI

“Cos’è la Narrazione”di Linda Maria Pacifico – Corso 2016/2017

“Leggimi” le disse il libro.
La ragazza prese il libro tra le mani ed iniziò a sfogliarne le prime pagine. La carta al tatto era ruvida, profumata. La ragazza, inebriata, scorreva velocemente con lo sguardo quelle parole che risuonavano come una dolce melodia nella sua testa.
“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte…”
“Come ti senti?” le chiese il libro.
“Incuriosita” rispose.
“Leggimi ancora allora…”
“Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzola al di fuori, e l’altro pede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.”
“E adesso, come ti senti?” le chiese nuovamente il libro.
“Spaventata” rispose.
“Bene. Credo che così possa bastare.”
“Cosa vuol dire?”. La ragazza non capiva il senso di quelle parole.
“Non comprendi ciò che ti sto dicendo ora, ma hai ben compreso ciò che volevo dire nelle mie pagine. Hai sentito tue quelle emozioni che era mia intenzione trasmettere, come se fossi vicina al mio personaggio, come se anche tu stessi vedendo ciò che vedeva lui.”
La ragazza lo fissava silenziosa.
“Ecco cos’è una narrazione.. Un compito arduo da perseguire, ma estasiante quando lo si porta a termine. È una minuta osservazione del mondo ed un’impeccabile racconto di esso.”
Il libro sospirò, poi riprese a parlare. “Un buon narratore deve coinvolgere il lettore, farlo sentire parte di quella storia, come se fosse l’obiettivo di una telecamera che riprende una scena. Deve saper descrivere perfettamente un ambiente, di modo tale che chi legga possa immaginare cosa li circonda e dove i personaggi agiscono. Inoltre, un buon narratore deve sì perseguire il suo punto di vista, ma deve offrire anche la possibilità a chi legge di poter ricercare ulteriori punti di vista ed

immaginare la storia, i personaggi, gli ambienti, come più sono consoni alle loro fantasie. Così i Promessi Sposi sono un esempio lampante di scrittura impeccabile, che immerge pienamente tutti coloro che si dedicano, anche solo per un istante, alla lettura delle sue pagine.”
La ragazza rimase estasiata. Ora non le restava altro che farsi trascinare dalla profondità di quelle parole che il libro custodiva gelosamente nelle sue pagine.

Esercizio sulla Narrazione Corso di Storytelling 2016