“Buona passeggiata” di Valentina Faloni

Ho avuto la fortuna di sentirmi dire no. Ho avuto la fortuna di chiedermi perché, e la sensazione che fosse possibile un cambiamento. Ho avuto la fortuna di misurare l’esistenza con la religione. Ho avuto la fortuna di avere la quotidianità spiegata attraverso l’istituzione, di avere regole e ‘maltollerati’ giudizi di valore. Ho avuto la fortuna di imparare attraverso la cultura, di misurarmi attraverso la creatività. Ho avuto la fortuna di crescere nei riti, di credere nelle persone, e nella natura. E poi ho avuto la fortuna di abitare il mio tempo e di sentirmi persa. Ho avuto la fortuna di capirne il perché. Ho avuto la fortuna che la caparbietà non mi abbandonasse mai nel voler trovare un senso, un ruolo, un posto, un’identità, una dimensione perduta e conquistata con l’ascolto, l’osservazione, lo studio, la riflessione, con la vita e ancora la ricerca.

Non mi sono rassegnata alla sensazione di non quadrare il cerchio e ho continuato a cercare risposte e a pormi domande. Ho capito che é importante nominare, per capire ed essere compresi. Ho capito che senza nome: non é, non c’é comprensione. Ma, senza nomi ci si riconosce lo stesso. Ho capito che c’é bisogno di un linguaggio, di un codice, di uno stile cognitivo a cui appartenere, in questo modo si può interpretare ed essere interpretati. Ho avuto la fortuna di dover tirare i fili e di dover capire. Finalmente mi é stato chiesto: chi sei, cosa hai fatto fin qui, cosa sei diventata? forse implicitamente per capire: dove stai andando?.

Ho avuto la fortuna di agire per essere e non per avere, e la fortuna di fare lo stesso nello scegliere le persone con cui condividere questo percorso, di badare all’essenza e l’anima, così facendo, mi sono resa forse il percorso più lungo e tortuoso. Mi sono misurata con la morte e ho capito di non essere eterna o almeno che il tempo che ci é dato da spendere in questa vita, non é infinito. In quel momento ho scelto di essere felice. Felicità per me significa conoscenza, intensa nel suo senso più nobile di sapienza. Felicità per me significa studio e ricerca. Felicità per me significa comprensione. Felicità per me significa equilibrio. Felicità per me significa lettura. Felicità per me significa interpretazione. Felicità per me significa consapevolezza. Felicità per me é un testo. Felicità per me é studio con impegno. Felicità é un buon maestro. Felicità sono un paio di occhiali nuovi per osservare meglio. Sono le idee, le intuizioni, i nuovi punti di vista, i simboli e la tradizione. Felicità significa pensiero critico. Felicità é quel fuoco che arde e non si spegne. Felicità è ritrovarsi e capire che ogni passo era in un unica vera direzione. Felicità è trovare le parole chiave. Serenità é per me sapersi muovere in uno spazio di significati. Possedere campi cognitivi e fare patti comunicativi.

Forse é per questo che oltre alla mania per i “testi” nell’accezione più ampia del termine nella sua dimensione comunicativa e culturale, ho una particolare attenzione per la superficie che accoglie i miei passi. Osservo “la terra” che ospiterà il mio cammino, sempre, che si tratti di una strada sterrata, di un prato, di un pavimento piastrellato. Mi piacciono le superfici che raccontano una storia. Il cammino che accoglie i miei passi deve narrare una tradizione, una cultura, un’arte. Passo dopo passo quella strada ci accompagna in un ambiente, uno spazio, ci accoglie.

Buona passeggiata.

Valentina Faloni

“Cara Valentina” – incipit di un racconto di Valentina Faloni

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Cara Valentina,

è tempo che non ci vediamo, quanta vita tra noi due, quanta vita è stata, quanta vita c’è n’è,  quanta ce ne sarà. Tutto è cambiato e faccio fatica a riconoscermi e a ritrovarmi. Tu come stai? Ogni volta che ci rincontriamo dopo lunghi periodi di vite trascorse lontane, io mi ritrovo con gli occhi di bimba e cerco di capire se c’è ancora quella che ero, se abbiamo rispettato i nostri sogni, se il mondo ci accolto così come volevamo essere o ci ha cambiato inevitabilmente senza chiedere il permesso.

La mia paura più grande, ogni giorno è quella di non tener fede a quella bambina, allo sguardo maturo e consapevole che c’era nonostante l’età, alla grinta, la tenacia, e la fantasia, unica altra interlocutrice dei nostri progetti.

Quella paura si scontra con il presente, che corre, corre, corre. Corre e la paura è quella di non capire dove va e di perdere il momento. Sembra che ci debba essere un momento giusto, inevitabilmente per tutti. E ci hanno convinto che deve essere il prima possibile, altrimenti tutto è perduto. Finalmente ho capito, ancora una volta, e me ne convinco che quel momento lo decidiamo noi.

Ho bisogno di ripercorre quei passi, perché è lì che voglio tornare, è l’unico modo per essere sincera sui miei propositi e rispettare una personalità che c’è, c’era e ci è stata donata dal giorno in cui abbiamo scelto di presentarci al mondo. Io ero già abbastanza infastidita, la placenta era infartata, dice mia mamma, piena di buchi, volevo uscire di lì e presentarmi al mondo ostinatamente. Le mie foto mostravano un ragnetto con i capelli lisci, folti e neri come il carbone, degli occhi grandi, aperti e profondi, e un’espressione incazzata.  Tu forse eri placida, pelata e con gli occhi chiusi, pronti a brillare d’azzurro una volta pronti per il mondo, chiari come la tua pelle che è rimasta così candida da fare invidia a Biancaneve. Questo non lo so, come eri appena nata, mandami una foto se ne hai. La televisione mi disturba, la spengo. Questo computer continua ad impallarsi ma io continuo a scrivere e mi dico che è arrivato il momento di comprarne uno nuovo. Quanto mi piaceva scrivere con la penna, mi piace ancora, trovo che abbia qualcosa di magico, le parole prendono forma dai pensieri e sul foglio prendono forma con il loro carattere, grafico e rappresentativo di una personalità, non a caso, forse, si utilizza la stessa parola: carattere. Due significati diversi, due concetti diversi, con uno stesso significante, un po’ come noi, amiche inseparabili ma ormai separate da una vita, con uno stesso nome: Valentina.

Ti scrivo perché voglio raccontarti una storia, e so che mi pensi, e che spesso ti fermi anche tu per capire chi sei, dove stai andando, chi vorresti essere, e dove ti porteranno le tue scelte. Senza indugi, so che ti chiedi se c’è ancora quella bambina tenace e timida che rivendicava indipendenza da tutto e tutti, che leggeva e scriveva, e guardando Love Story desiderava un amore come quello ma con un lieto fine.

Valentina, forse è per che ti chiami come me, e perché le nostre vite si sono tenute per mano quando ancora il mondo serviva a cullare i nostri giochi e la verità del nostro essere era lì, fiera, senza temere il domani. Sei lo specchio della coscienza del passato e quella del presente. Di fronte a te io mi arrendo alla realtà e devo fare i conti con quello che è oggi. Le risposte alle mie domande sono lì, nelle parole dei nostri ricordi e in quelle del nostro presente. Allora ti racconto di quello che è stato dopo di noi e tu dimmi se mi riconosci ancora e se c’è qualcosa che ho dimenticato e che dovrei tenere a mente.

“C’è di più” di Ilenia Matteucci – workshop 2016/2017

Identità.
Un paio di occhi. Color cioccolato, intensi. Vedo soltanto quelli e un microscopico lembo di pelle, il resto è coperto. Il resto è coperto da un velo nero, non vedo il volto della donna che ho davanti. Non so se le sue labbra siano sottili o carnose, non so se in realtà lei preferisca indossare il blu. So soltanto che è una donna, perché questa è l’unica definizione che quel velo lascia trasparire. Ai miei occhi questa persona si esaurisce in due parole: donna musulmana. Questo è ciò che appare.
Mi saluta, le rispondo e le sorrido. Forse lo fa anche lei di rimando. Inizia a raccontarmi la sua storia, in un italiano abbastanza buono.
La ascolto, sono pagata per questo, ma intanto penso. Penso che lei non è soltanto una donna di religione islamica, non si esaurisce lì, non può finire lì. Avrà delle passioni, dei libri che le piacciono, un gruppo musicale preferito. Non è soltanto il suo genere e la sua religione.
Continua a parlare, a raccontarmi ciò che le è accaduto. Continuo ad ascoltarla e più la ascolto più mi convinco che non sia soltanto ciò che appare. Lei non è soltanto ciò che appare, non può esserlo, perché se al suo posto ora ci fosse un’altra donna dello stesso peso e della stessa altezza sembrerebbero identiche pur essendo le persone più diverse del mondo. Non importa ciò che sembra, l’apparenza è un’ipocrita bugiarda, e soprattutto non dà spiegazioni esaustive. L’apparenza rende pressoché identiche persone che non lo sono, perché la realtà è che ci hanno mentito sin da bambini, quando a scuola ci costringevano a mettere il grembiule affinché non ci fossero differenze, sì, ci hanno mentito perché non siamo tutti uguali. Siamo tutti delle persone e ciò è fondamentale, ma l’uguaglianza finisce qui. Ognuno ha una propria identità, che è data da una serie infinita di fattori e che perciò ha miliardi di sfumature; non potrà mai esaurirsi in una semplice descrizione di ciò che è deducibile dall’apparenza, né tantomeno in un mestiere, o in una religione.
La suoneria di un telefono interrompe il parlare della donna e le mie riflessioni.
“Scusi avvocato, devo rispondere”, mi dice.
“Non si preoccupi, faccia pure.”
Inizia a parlare in una lingua che non conosco. Non riesco a comprendere nulla della sua conversazione, ma il suo tono è prima irritato per essere stata interrotta quando era a un appuntamento, poi preoccupato e infine amorevole. Una persona che varia il suo stato d’animo così frequentemente in un lasso di tempo tanto breve non può essere definita semplicemente “donna musulmana” come suggerisce il velo che indossa e come chiunque dall’esterno farebbe. È più semplice definire qualcuno in due parole: viviamo in una società nella quale c’è un’immagine, uno stereotipo per tutto, quindi nelle menti di ciascuno esiste una precisa corrispondenza di quello che significano le definizioni grossolane che i semi-sconosciuti ci affibbiano. Dopo qualche minuto attacca.
“Scusi, era mia figlia, ha avuto un problema.”
“Si figuri, immagino.”
Riprende a raccontarmi il motivo per cui si trova nel mio studio, e mentre rifletto prendo nota dei dettagli più salienti del suo caso. Dai fatti che mi sta narrando si evince che il suo comportamento è stato quello di una donna forte, coraggiosa e ribelle, niente che sia collegabile all’immagine che l’etichetta “donna musulmana” generalmente evoca nell’immaginario collettivo. Il suo comportamento, il suo carattere, la sua identità, sono il risultato di ciò che ama, dei luoghi che ha visitato, delle delusioni che ha sopportato, dei torti che ha subito e delle vittorie collezionate, degli esami che ha sostenuto e dell’esito che questi hanno avuto su di lei. È il risultato dei gesti che compie, tutti, dei libri che ha letto, degli abbracci che ha dato. Non bastano due parole per definire la sua identità, così come non bastano per definire quella di chiunque altro. L’identità è molto più di un’etichetta che il mondo ci ha cucito addosso, è un insieme di innumerevoli fattori, e ognuno ha la propria, nessun essere umano è uguale a un altro, né lo sarà mai. La parola “identità” ha sia il significato di “rapporto di esatta uguaglianza e coincidenza” che quello di “complesso di dati caratteristici e fondamentali che garantiscono l’autenticità” e con le etichette, così utilizzate per comprendersi più facilmente, si dà valore solo al primo, quando invece è il secondo a contare davvero.
Finisce di raccontare.
“Spero che lei possa aiutarmi” mi dice.
“Sicuramente! Mi porti il resto della documentazione in settimana, così ho modo di studiarla.”
“Certo. Beh, allora grazie e arrivederci.”
Ci stringiamo la mano. Guardo il display del mio iPhone, c’è un messaggio del mio prossimo cliente che mi avvisa che a causa di complicazioni non potrà venire. Colgo l’occasione per confermare la mia tesi.
“Signora, aspetti, le posso offrire una tazza di tè, prima che vada?”
“Ehm, certo, volentieri, grazie” mi risponde inaspettatamente.
“Fantastico” replico.
Mi guarda, esitante.
“Solo, le dispiace se mi tolgo il velo?”
“Io non l’ho mai indossato in vita mia, si figuri se mi dispiace che non lo indossi lei!”
Lo toglie e sorride. Sorrido di rimando. Ora vedo che ha pochi anni più di me, e che il suo volto dice molto più di quanto non mi aspettassi, e sicuramente non dice tutto.
C’è di più, c’è sempre di più.

“Giù il sipario” di Furio Duratorre – Workshop 2016/2017

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Sono stato nella sua testa, a contatto con i suoi pensieri, esposto incessantemente a ogni sua idea, teoria e considerazione: eppure, a stento posso dire di conoscere Fabrizio più di chiunque di voi. Se vi sembra assurdo, dovete solo ricordare che il buon Fabrizio Castelli non si è mai aperto molto con nessuno, eccetto rarissimi casi di confidenze con persone a lui molto care che ha scelto, curiosamente, di non rendere partecipi di questa confessione. Evidentemente non voleva allarmarli. Che pensiero gentile.

Un po’ paranoico, il nostro Fabrizio, eh. Così insicuro, così stretto nei suoi dubbi e nelle sue paure. Venti anni di pura ansia!, ma com’è possibile? Oh, andiamo, non fate così. So cosa state pensando, ma dovete ammettere ciò che sapete di lui e che non avete il coraggio di dire. Ma non vi sto biasimando: come potrei, del resto? Basta guardarlo! Fabrizio Castelli è di così poca presenza che a momenti si fa oscurare dalla sua stessa ombra. Una vita vissuta nel silenzio, c’è poco da fare. L’indifferenza è dura da sopportare per tutti, ma lui ci ha trovato una sicurezza – una garanzia, in un certo senso. Nell’indifferenza ci è cresciuto, ne conosce ogni forma e sfaccettatura. Sa bene cosa significa sentirsi lontani da tutto e tutti: ma la variazione di cui è più esperto è senz’altro quello smarrimento nel vedere due persone capirsi a vicenda senza parlarsi. Ma come fanno? A mancargli è proprio questa intesa con qualcuno, questa magia; questa intimità personale che culmina nel non detto – cosa che per lui ha dell’incredibile!  E da qui il sentirsi spaesato, il chiudersi in se stesso, la paura di anche solo disturbare qualcuno per rivolgergli una domanda: quel brancolare nel buio alla ricerca di risposte che la sua mente avrebbe doviziosamente trasformato in altre domande, in altri dubbi. Una pippa mentale con le gambe. Fabrizio Castelli è una fucina di punti interrogativi!

Mite; passivo, se volete, ma non per questo poco ambizioso. La vita ne ha, di senso dell’umorismo. Sognava la fama, Fabrizio – ma la fama… vera. Broadway, Hollywood, gli Oscar. Anderson, Ozpetek, Scorsese. Quella maledetta tartaruga, nella tristezza del suo guscio, voleva fare il culo a tutti quanti. Gli sarebbe bastato poco, almeno per cominciare. Pochissimo: buttarsi, come si suol dire, sciogliersi un po’. Ma poteva davvero permettersi di rischiare? Mai che avesse parlato del suo sogno con nessuno – mai che avesse avuto con nessuno una conversazione decente. Poteva convivere con la vergogna del fallimento? Poteva Fabrizio Castelli conquistare SE STESSO prima ancora del pubblico?

Povero diavolo. Non è solo il coraggio a mancargli, ma sono sicuro che avrebbe potuto finire diversamente. Eppure, per prendere quella decisione definitiva, ne ha avuto, di fegato. Da parte sua è stato un bello slancio, in tutti i sensi. E ora che finalmente il suo nome, Fabrizio Castelli, sarà stampato sui giornali, lui non ne saprà mai nulla. Non è incredibile? Ah, e se pensate di aiutarlo, non vi disturbate: state già leggendo, dopotutto, le parole di un uomo morto.

Cordialmente,

F. C.

“Le fate d’inverno” di Camilla Tarducci – Corso 2016/2017

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C’era una volta un villaggio nato sulla riva di un lago.

Il lago si chiamava Silenzio. Il nome del villaggio non viene più pronunciato.

Per tre quarti dei suoi confini era delimitato da una vasta foresta di aceri rossi e abeti che si estendeva per miglia in tutte le direzioni, e gli uomini erano in grado di capire che al di là della nebbia sorgevano montagne solo perché gli alberi risalivano le loro scarpate, tingendole di cremisi durante l’autunno. Gli abitanti del villaggio non sapevano che esistesse un mondo oltre quelle cime, né coloro che vivevano dall’altro lato erano a conoscenza di quel piccolo gruppo di case. Le uniche cose che gli uomini del lago conoscevano erano l’acqua, il cielo, il bosco e la roccia.

Poi nacque una bambina che conobbe molto altro.

I suoi capelli erano rossi come le bacche d’agrifoglio e il suo passo leggero come il respiro di un uccello.

Per il suo tredicesimo compleanno la madre le donò un’ocarina, e da quel momento non ci fu neanche una sera in cui la ragazza evitò di suonarla, facendo aleggiare fuori dalla finestra della sua camera melodie semplici e dolci, più spesso allegre che tristi; la gente alzava la testa e sorrideva, passando davanti a quella casa – e per molto tempo non prestarono attenzione alle piccole schegge di luce che balenavano sul davanzale mentre la ragazza suonava.

La stanza della bambina era piccola e dalle pareti di legno, con una sola finestra circolare; aveva un grande letto con una morbida coperta verde e uno scrittoio, una cassapanca e qualche scaffale. Molti dei suoi giocattoli erano riposti in angoli insoliti, in attesa che si decidesse del loro destino. Dopo aver cenato ed essersi lavata, la bambina si arrampicava sul materasso, socchiudeva la finestrella e, con i gomiti poggiati sul davanzale, si divertiva con l’ocarina.

Il suo compleanno cadeva in primavera, quindi la finestra era spalancata e il sole non era ancora tramontato quando la ragazza suonò per la prima volta.

All’inizio le scambiò per falene, attirate dalla luce nella sua camera, poi per bagliori del sole morente; ma quando si posarono tra le sue braccia e cominciarono a danzare, vide che in realtà erano fate. Sottili ed evanescenti come la fiamma di una candela, con ali purpuree di farfalla, volteggiavano nel vano della finestra apparendo e svanendo come raggi riflessi da uno specchio. Quando la ragazza, stupita, staccò le labbra dall’ocarina, le picchettarono le mani con i loro piedini, implorandola di continuare. E così, ogni sera, un corteo via via sempre più numeroso si radunò sul davanzale della bambina per ballare e giocare nei modi arcani e ineffabili delle creature del bosco.

Venne l’inverno, ma la ragazza cercava sempre di tenere aperto uno spiraglio per le sue fatine ad ogni tramonto. Il buio scendeva presto, e le donne che sull’uscio delle loro case richiamavano i bambini per la cena o aspettavano il ritorno dei mariti cominciarono a notare i fuochi fatui che vagolavano sotto il tetto dei loro vicini. Non ne fecero parola, tuttavia, fino all’anno successivo, quando la bambina compì quattordici anni.

Quel giorno abbandonò definitivamente i vestiti infantili e cominciò ad indossare gli abiti smessi di sua madre, imparò ad acconciare i capelli e ad atteggiarsi da signorina. Non amava unirsi alla compagnia delle sue coetanee, preferendo di gran lunga sgattaiolare nella foresta ad ogni occasione buona oppure passeggiare da sola per il villaggio, cantando a bassa voce: tutto questo non fece altro che accrescere le attenzioni rivolte a lei. Prima ancora del suo quindicesimo compleanno, ricevette già tre proposte di matrimonio. Ma lei non se ne curava: altre compagnie reclamavano la sua presenza.

Fu proprio in quell’anno, infatti, che le fate la condussero nel bosco per farla suonare per loro. All’epoca di sentieri ce n’erano ben pochi, solo quelli usati dai boscaioli e dai cacciatori, e nessuno di essi si addentrava mai nel fitto della foresta. Le fate le mostrarono una via fatta di fragole nascoste nel profondo del sottobosco, di tane di volpi e di macchie di funghi sugli aceri, una via tortuosa ma stranamente sgombra, come se gli alberi non osassero intralciare il cammino delle piccole creature.

Non c’era una radura, alla fine del sentiero, né una casina ricoperta di ortiche, ma solo una spaccatura nella terra provocata dal corso di un ruscello: tra le pietre umide e lisce e le felci ombrose si annidavano gli spiriti della foresta, dai colori molteplici e le ali traslucide, tutti con occhi neri come quelli dei corvi, tanto grandi da sporgere dal loro viso minuto. La bambina si accucciava ai piedi di un abete e cominciava a suonare l’ocarina, guardando le fate librarsi in volo sopra la sua testa e volteggiare seguendo la melodia. Dovevano esserci dei rituali ben precisi, ma lei non riusciva a comprenderli; la sola cosa che non poté sfuggirle fu l’apparizione del Re e della Regina delle fate.

Sembravano entrambi fatti d’oro puro e le loro ali erano piumate e aggraziate come quelle dei colibrì: danzavano al centro del corteo, che si disponeva in cerchi concentrici, ognuno dei quali ruotava secondo un senso e un ritmo diverso. Era ipnotico. La ragazza non riusciva mai a terminare le melodie che aveva in mente, perché le sue palpebre si facevano pesanti e i suoi pensieri sembravano inciampare l’uno sull’altro, muovendosi a rilento, finché la sua testa rossa non scivolava su un giaciglio di muschio, cedendo al sonno.

Risvegliandosi, vedeva sempre le fate intente in una concitata conversazione: le parole erano quasi indistinguibili le une dalle altre, tanto le loro voci sembravano un unico flusso di note limpide, come quelle prodotte dall’ocarina. La ragazza restava ad ascoltarle, un braccio piegato sotto la testa, domandandosi se la musica da lei composta avesse un qualche significato per quelle creature, come se si trattasse della loro lingua. Da piccola aveva provato a parlare con loro, ma non aveva mai ricevuto risposta. Adesso che si sentiva più adulta e sicura di sé provava a interloquire con qualche timida nota, cercando di comunicare. Allora le fate si azzittivano immediatamente, e restavano a fissarla con intensità.

Ma decisero di non esporre i segreti del loro mondo prima dell’arrivo dell’autunno, quando gli aceri incendiarono la foresta e le montagne con le loro foglie rosso cremisi e il cielo plumbeo cominciò a gravare sul lago come una minaccia. Fu nell’autunno dei suoi quattordici anni che la ragazza comprese tutto ciò che agli uomini non era dato comprendere, e apprese della nascita del cielo e del lago, e dei misteriosi tesori che essi custodivano; imparò il linguaggio delle rocce e degli alberi, imparò a domare gli orsi e i lupi e ad evocare il vento. Le fate erano sempre con lei, nascoste tra le sue trecce o nelle pieghe del suo vestito, e la consolavano quando suo padre la batteva e i paesani borbottavano oscuramente alle sue spalle.

L’inverno fu aspro e tenebroso. La neve cadde presto, costringendo gli uomini ad uscire nella bufera per finire di radunare le provviste prima che tutto il loro universo venisse sepolto da quella bianca coltre. Nel giro di una settimana divenne impossibile uscire di casa.

La ragazza sedeva in camera sua, lo sguardo rivolto alla finestra: le imposte erano congelate, ma lei non aveva il coraggio di chiedere l’aiuto di suo padre per aprirle. Li sentiva parlare, a volte, i suoi genitori e i rari visitatori che venivano per barattare le loro scarse risorse. Un inverno inusuale, diceva sua madre. Un inverno diabolico, correggevano gli ospiti. La ragazza studiava allo specchio nuovi modi per legarsi i capelli, in modo che le ciocche nascondessero i lividi sul suo viso. Non che avesse più molta importanza: i suoi pretendenti erano volati via con la stessa rapidità con cui una volta andavano ad affollare la sua porta. Forse sarebbe stato più saggio mostrare al paese che in qualche maniera stava pagando per le sue azioni. Alzò lo sguardo sulla fata seduta sulla cornice dello specchio, e lasciò che i capelli le ricadessero scompostamente sulle spalle.

La neve cominciò a sciogliersi, e il sole sembrava tornato ad emanare calore. La ragazza guardò gli uomini avviarsi a gruppi verso i campi e ne vide altri dirigersi verso il lago per testare il ghiaccio; si grattò nervosamente la nuca, non ancora abituata a sentire solo pochi ciuffi di capelli spazzarle il collo.

Presto avrebbe dovuto trovare nuove tane per nascondersi dai taglialegna e dai cacciatori.

Non era stato difficile andarsene. Una sera era uscita nella tormenta e nessuno l’aveva fermata, nessuno era corso a cercarla il mattino dopo – anche se lei sapeva che tutti l’avevano vista, dalle loro piccole finestre illuminate, percorrere la strada maestra e rifugiarsi nel bosco. Lei era felice, in fondo, e pensava che anche i suoi genitori sarebbero stati più felici così.

Vivere era semplice, quando si era amici delle fate. Non le mancava nulla. La nutrivano, cucivano per lei dei magnifici vestiti e la tenevano al riparo dal freddo e da tutto ciò che potesse ferirla. Il giorno del suo quindicesimo compleanno fu una giornata splendida, e suonò e ballò insieme alle fate per tutto il pomeriggio e alla sera salì su uno degli abeti più alti per vedere le stelle; ogni tanto lo sguardo le cadeva sul gruppetto di case sotto di lei, ma le fate non permettevano che si rattristasse, e le pungolavano il mento per farla tornare ad alzare gli occhi al cielo. Rise molto quel giorno, come non rideva da tempo.

I cacciatori giuravano di poter sentire quelle risate, di tanto in tanto, quando durante l’estate si inoltravano nel bosco in cerca di selvaggina.

E quell’anno furono costretti ad addentrarsi sempre di più: gli animali sembravano essere tutti scomparsi, migrati in zone sconosciute, gli antichi sentieri di caccia invasi dai rovi e dalle ortiche.

Un silenzio innaturale covava sopra le cime degli alberi; tutto era immobile.

La ragazza li osservava pensierosa, con le fate al suo fianco, mentre si spingevano oltre i confini da loro conosciuti, guidati dalla fame e dalla disperazione.

Mai una volta le creature le permisero di avvicinarsi per aiutarli a ritrovare la strada di casa. Così il villaggio perse una dozzina di uomini, e l’autunno incombeva. Le dispense contenevano appena qualche scoiattolo e qualche tordo; i campi sembravano ammorbati, con le loro spighe grigie e afflosciate; i semi negli orti si rifiutavano di germogliare; la frutta era senza polpa e ricoperta di bubboni mai visti.

La ragazza non si accorse di tutto questo. Le fate occupavano tutta la sua giornata, insegnandole infiniti segreti e raccontandole le storie del cosmo. La sera, però, si sentiva strana: come se ci fosse qualcosa che stava dimenticando, come se fosse in ritardo per un evento molto importante, come se avesse perso una cosa insostituibile. Tormentata e confusa da queste sensazioni, una notte uscì dal suo rifugio per incamminarsi verso il limitare della foresta. La via da lei percorsa era piana e piacevole come era sempre stata, priva delle asperità che ostacolavano i cacciatori.

Non c’erano fioche luci a ravvivare qua e là la facciata delle abitazioni, né sbuffi di fumo che uscivano dai comignoli: al chiarore incerto della luna di fine estate, l’intero villaggio pareva un ammasso roccioso, scuro e morto, freddo e dimenticato. La ragazza restò a guardarlo, seminascosta dietro l’ultimo albero prima del breve prato che conduceva al paese, oppressa da un’inspiegabile urgenza, dall’impressione che qualcuno la stesse aspettando con impazienza.

Indecisa sul da farsi, si sporse leggermente fuori dalla protezione del tronco e rimase in ascolto: nel silenzio implacabile della notte, sentì farsi strada un borbottio di fondo che andava aumentando, simile a quello di calabroni impazziti. Prima che potesse voltarsi, la investì come il cavallone di un’onda: uno sciame furente di fate, ronzante e rosso di collera, si abbatté su di lei, spintonandola indietro verso la foresta e non la mollò finché non fu ritornata nella sua tana.

La ragazza obbedì, vergognandosi anche un po’, perché sapeva che le creature volevano solo proteggerla. Per tutta la notte le sentì cicalare fuori dal suo nascondiglio, illuminato dal loro bagliore e risuonante del battere irritato delle loro ali.

Il mattino seguente, si convinse che era stato quello il motivo per cui aveva sognato tremendi e fragorosi incendi. Uscendo all’aria aperta, fu accolta da un piccolo corteo di lepri che superava il ruscello per raggiungere in gran fretta le zone più nascoste della foresta. Qualche minuto dopo le parve di vedere, in lontananza, le sagome scure di un branco di lupi marciare nella stessa direzione. Le sue amiche non erano nei paraggi, perciò la ragazza decise di andare a passeggiare per conto suo.

Fu il vento a raccontarle quello che era accaduto la notte precedente, bruciandole le narici con l’odore acre del fumo; arrampicata sui rami più alti vide gli alberi crollati e anneriti dal fuoco e, in lontananza, il viavai di persone sul prato – ora bruno e cinereo – che andavano a recuperare i cadaveri sparsi nel sottobosco.

Quella notte, le fate l’avevano salvata da una carneficina.

L’autunno fu breve come un sospiro. Il gelo si impossessò rapidamente della regione, serpeggiando dentro le case ancora appesantite dal lutto, facendo rabbrividire il lago con i suoi aliti sottili e radunando le nubi sopra le teste dei paesani, come un sinistro presagio. La ragazza, infagottata nelle pellicce e ben riparata nel suo nascondiglio, lo percepiva appena: ma qualcos’altro di ben più agghiacciante si faceva strada dentro di lei.

Non aveva più rivisto le fate dalla mattina dopo l’incendio. Non aveva più sentito un palpito di vita attorno a sé. Gli animali erano fuggiti, e ora la foresta era caduta in un sonno profondo. Ma più della solitudine e del silenzio, ciò che la turbava era la natura stessa di quell’inverno: anomalo come quello dell’anno precedente, mortifero come l’estate appena trascorsa e improvviso come l’incendio provocato dagli uomini.

Nelle lunghe ore di buio del suo letargo forzato, la ragazza ricongiunse tutti i pezzi del suo rompicapo.

La carestia aveva spinto gli uomini a cercarla, a profanare il territorio delle fate e a voler bruciare ciò che consideravano la causa delle loro disgrazie; l’inverno prematuro era la vendetta degli spiriti della foresta. Quanto sarebbe durato, non osava prevederlo. Per la prima volta da quando le fate erano apparse davanti a lei, la ragazza cominciò ad avere paura.

I giorni erano brevi e grigi, stanche ombre si trascinavano davanti alla sua tana, bagliori pallidi sembravano fiorire nel sottobosco come la rugiada al mattino e saturare l’aria greve e affilata come una ghigliottina; le notti erano simili all’infanzia del mondo, primordiali, eterne, scevre di suono e luce, fredde e ottuse.

La ragazza si rannicchiò in se stessa come un fiore, e attese.

Fu la luce a svegliarla – non quella del fuoco, non quella della luna, ma quella cerea del sole invernale, una piccola moneta che riluceva tra la foschia e le chiome degli abeti. Qualcuno doveva essere entrato nel suo rifugio, per far sì che quel chiarore la raggiungesse.

La giovane si alzò a fatica sui gomiti, intorpidita e intralciata dalle pellicce, e si ritrovò a guardare le sue vecchie amiche, tornate da lei dopo lunghi mesi, tutte graziosamente in fila davanti ai suoi occhi. Scintillavano festosamente, i corpicini color ghiaccio e le ali di cristallo, gli occhi rossi che parevano emanare calore. Al centro stavano il Re e la Regina, dorati e silenti; la presero per una mano ciascuno e la invitarono ad uscire all’aperto.

Nulla sembrava cambiato da quando era scesa in letargo, eppure alla luce del sole la neve non sembrava una soffocante minaccia, il vento era sopportabile, il silenzio era spezzato dal frinire di mille ali che battevano in sintonia. La piccola corte la condusse verso il nucleo del regno, la spaccatura nella terra dove ora il fiumiciattolo era del tutto gelato e le felci quasi sommerse dalla neve.

Allora la ragazza capì: era il giorno del suo compleanno; la primavera era infine giunta. Presto sarebbe ritornato il caldo, e la vita, i colori, i suoni.

La coppia reale aprì le danze, volteggiando sopra il rivo con una grazia che non poteva che commuovere. La ragazza ripescò la sua ocarina tra gli strati di vesti e cominciò a suonare e battere i piedi a tempo, riscaldandosi mano a mano. Il resto delle fate si unì alla festa, e nel giro di pochi minuti l’intero bosco brillò come una gemma; non aveva mai visto così tanti spiriti tutti insieme, tutti che ballavano intorno a lei quasi volessero stringerla in un abbraccio. Così suonò e suonò, e la notte scese attorno a loro senza trovarli più stanchi o meno felici.

Il mattino seguente il sole squarciò di nuovo la foschia, si fece strada tra i rami rinsecchiti e infine toccò il suolo, la lastra di ghiaccio che un tempo era un ruscello.

I capelli rossi della ragazza sembrarono prendere fuoco a quella carezza; la pelle, pesta, cascante, raggrinzita come un frutto marcio ancora riluceva. Il suo petto ebbe uno spasmo: dalle cavità delle orbite uscirono il Re e la Regina, splendenti come dèi, e lentamente volarono verso il cielo. Qualche attimo dopo, una giovane fata riemerse dalle sue labbra socchiuse, si arrampicò sul suo viso e raggiunse il gruppo che la stava aspettando appollaiato sulla fronte della giovane. Si librarono in fretta con un fremito di risolini, diretti al villaggio dove avrebbero cercato la loro nuova amica.

Quando il ghiaccio si sciolse, il fiume si prese il corpo della ragazza.

Gli uomini dissero che non c’era mai stata una primavera tanto rigogliosa come in quell’anno.

“Noi” di Laura Grandinetti – Workshop 2015/2016

NOI.

Lei.

Era lei quella mattina a fare quel rumore assordante. Quella cavolo di spremuta. Dopo vent’anni ancora non ha capito che quella cosa arancione acida piena di grumoli mi fa vomitare. Soprattutto presa a colazione.

“la vitamina C è importante…non ti farà ammalare…gira l’influenza questo periodo..” sempre le solite frasi, le solite storie sul nuovo supereroe del XXI Secolo.. erano i bei tempi di SpiderMan o SuperMan..ora c’è solo una cosa a salvarti: la vitamina C.

…Secondo mia madre.

“Ciao, io esco!”

“Dove vai? C’è la spre..”

Ho vent’anni, non studio, non lavoro, non ho un fidanzato e pochi amici e per di più mi chiamo Margherita Raburini: una catena di R fastidiose simili al suono di un vecchio computer che si surriscalda vengono emesse quando si pronuncia il mio cacofonico nome.

Ho trovato un lavoretto part time come cameriera ad un bar in periferia. In pratica i miei clienti sono: il vecchio barbone Gianni, la figlia obesa del mio capo, la moglie ancora più obesa del mio capo e qualche sfortunato turista che capita lì per caso a cui facciamo pagare qualsiasi cosa, il doppio. Marketing: si frega sempre il prossimo che non è in condizione di capire. Così dice il mio capo.

Ho vent’anni e non so che svolta prenderà la mia vita. C’è chi dice che la vita scorre quando non te la aspetti, altri che dicono che ti devi muovere e far succedere qualcosa, altri ti dicono di aspettare, altri di informarti e partire, andare all’estero, studiare, lavorare, rilassarsi e altri ancora e ancora… cose che si dicono. Filosofie che una persona finge di adottare per giustificare qualsiasi comportamento della loro vita. Alla gente piace crearsi verità.

Io invece ho vent’anni e non so quale cazzo di svolta prenderà la mia vita.

Lei.

Sempre all’altezza delle sue aspettative. Ecco cosa vorrebbe. Brava, bella, intelligente, più degli altri, più di lei. Mi sono ribellata inconsciamente al suo amore. Una ribellione inerte, la mia. L’ho delusa sempre. Bocciata a scuola, qualche canna di troppo, senza lavoro… la figlia che lei non avrebbe mai voluto avere.

La cosa che mi fa più incazzare è che lei non me lo dice. Continua a fingere di amarmi. Mi dovrebbe odiare e non lo fa. L’immagine supera sempre la sostanza, per lei.

Mio padre non c’è. Non c’è mai stato.  Lei non me ne ha mai parlato. Non ho mai sofferto o sentito la mancanza di una figura paterna, mai traumi, mai nulla, anche in questo l’ho delusa. Pensava che la droga, la bocciatura e le altre sventure che le causavo fossero dovute al trauma infantile di non aver avuto un padre. La motivazione è più banale: non l’ho mai avuto, non l’ho mai conosciuto e non me ne è mai fregato un cazzo, sinceramente.

Mi ha sempre coperto di doni e di qualsiasi aggeggio inimmaginabile, come se dovesse nascondere le sue colpe inconoscibili. Misteriose. Lei non deve avere colpe, ai miei occhi, agli occhi della gente. La perfezione. Lei.

“ Come è andata al lavoro?”

“Bene”

“ Ho sentito Carla e mi ha detto che si è liberato un posto come consegna posta al suo ufficio. Le ho detto che si saresti andata a parlare. Un ottimo posto in un ufficio legale importante”

“Ok”

“Sempre molto logorroica tu..”

“Ho finito. Vado in camera. Buona notte!”

Ogni volta che ho una discussione con lei, mi ricopre il senso di colpa. Il senso di colpa di non parlarle. Di non dire assolutamente nulla. Di essere una stronza. In fisica c’è una legge che dice che ad ogni azione corrisponde una reazione. Con lei non vale. La mia stronzaggine non comporta nulla in lei. Mi dovrebbe urlare contro. Dovrebbe dire di odiarmi. Cazzo odiami. Sono detestabile. Odiami! Sono la figlia imperfetta per eccellenza. Dimmelo che mi vorresti abortire ora! Dimmelo! Odiami, cazzo!

11marzo : solito bar. Solità inutilità. Solite scelte che non si presentano. Solita giornata. Solita me. Tutto nella normalità.

Ma non lei.

Quel giorno lei preparò la cena, senza parlare. Strano. Si comportava come se fossi io. E io mi comportavo sempre da me. Non parlava. Niente vitamina C, eroe dell’universo. Niente Carla. Niente lavoro. Niente di niente. Era questa la reazione che avrei voluto da mia madre? Mi stava facendo capire il suo odio così, con il silenzio? No, c’era qualcosa di più. Qualcosa in cui io non c’entravo un cazzo. Era qualcosa dentro lei. Il silenzio era rivolto a lei. Non era lei.

“Io ho finito, vado in camera!”

“Ok”

Attimi.

Non riuscivo a prendere sonno. La pensavo. Pensavo a quel suo silenzio anormale, per lei. Non mi piaceva vederla così. Non l’avevo mai vista così, ecco perché non mi piaceva. La mia routine non poteva cambiare. Doveva esserci lei con la solita vitamina C, con i soliti discorsi, con la solita perfezione. E il silenzio non è perfezione. È turbamento.

Apro la porta della cucina. Lei era seduta a fissare il vuoto, con la tazza di tè in mano. Aveva gli occhi ludici. Si accorse di me ma non mi guardò. Provai sensazioni strane, tutte insieme: nodo alla gola, strappi allo stomaco, tremore e paralisi neurologica. Lei stava piangendo. Lei soffriva. Lei era umana.

Presi i biscotti e mi sedetti accanto a lei.

Era il momento di parlare? Che cosa dovevo dirle. Era lei quella forte, non io. Io ero quella incazzata, stronza, nullafacente. Non possono cambiare le cose, così, senza preavviso. Ognuno nasce con il copione nella vita e bisogna rispettarlo. In quel momento il dolore e i sensi di colpa mi avevano inglobato. Non sapevo che fare. Ho vent’anni e non so come si aiuta una persona. Come posso aiutare mia madre.

Era mia madre. Lei era mia madre e aveva bisogno di qualcuno. Aveva bisogno di me.

“Ho i biscotti al cioccolato. Sai sono meglio della Vitamina C”

Mi guardò. I suoi occhi lucidi nei miei. Mi chiese aiuto, io le chiesi scusa. Solo con gli occhi. Non so se siano davvero lo specchio dell’anima come si dice, ma i nostri in quel momento entrarono in relazione e comunicarono. Forse sono il sostituto della parola, quando la parola è bloccata.

Prese un biscotto.

“Sai ho parlato con Carla. Mi ha detto se domani vai in ufficio!”

“Ok. Ci passo  dopo lavoro!”

Ho trentacinque anni e non so che svolta dare alla mia vita.

Marco non era contento all’inizio. Troppo giovani, con lavori precari. “Non abbiamo i soldi per creare una famiglia. Un figlio non è cicciobello” diceva.

Ha ragione. Ma la scelta è stata un’altra. Tra due settimane nascerà la bambina, senza nome ancora. L’indecisione mi perseguita. Non so nemmeno che nome dare a lei, mia figlia.

Continuiamo a lavorare. Io da Carla. Ora sono al reparto telefoni: mi occupo di ricevere chiamate e prendere appunti. E marco al ristorante dello zio. Fa il cameriere. Siamo in affitto. Ma con l’aiuto della famiglia di Marco ce la faremo. “Ce la faremo”, ora dice. Mi solleva avere qualcuno che prende le scelte al posto mio. Una volta vidi un film con mia madre. Nel discorso finale si diceva che le persone più interessanti sono quelle che a 40 anni non sanno ancora cosa fare. Io non so se sia davvero così. Mi solleverebbe sapere che qualcuno possa trovarmi interessante, o almeno il regista di quel film. Marco mi trova interessante, credo. Vorrei che anche lei, mia figlia possa un giorno provare lo stesso sentimento nei miei confronti. Vorrei però che fosse migliore di me. Ora so cosa provava mia madre. Un amore infinito. Un amore che ti porta a desiderare che tua figlia faccia tutto il contrario di quello che hai fatto tu. Lei voleva che io fossi migliore, che fossi felice, che fossi decisa e io lo voglio per mia figlia.

Il mare.

Mia madre mi portava sempre lì da bambina e mi diceva di guardare l’orizzonte. “ Sai a cosa serve?” diceva “a camminare. Tu lo devi guardare e iniziare a camminare. Non lo raggiungerai, ci sarà sempre un orizzonte ancora più lontano, ma almeno ti sarai mossa!”

L’ultima volta che mi ci portò fu qualche anno fa, prima che lei se ne andasse.

“Mamma. Mi dispiace di non aver guardato mai l’orizzonte. Mi dispiace di essere rimasta sempre a riva!”

Non dimenticherò mai il suo amore.

“Non è vero, Marghe. Nel mondo ci sono due persone: quelle che quando vedono un muro lo vogliono a tutti costi scavalcare, per andare oltre. E quelle che, vedendolo, ci si appoggiano. Capiscono che il muro è anche un sostegno e non hanno bisogno di sforzarsi, correre e sudare per scavalcarlo. Sono contente di appoggiarcisi. e guardare indietro. Non esiste solo il futuro, esiste anche la strada indietro. Quella che hai percorso e il muro ti fa riposare”.

Ho trentacinque anni e so che svolta deve prendere la mia vita.

Si chiamerà Lucia, come mia madre.