“Il giardino” di Diletta Bellotti – Workshop 2016/2017

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Io non sono un giardino, ma una casa che da su di un giardino. Questo perché non vorrei mai vivere dentro di me ogni momento della mia vita, vorrei potermene andare e osservarmi da fuori, esitare sull’uscio e lasciare le erbaccie crescere per un po’. Dalla finestra della mia casa vedo il mio giardino, ne vedo gli insetti e le piante, gli animali notturni e quelli diurni, i passanti che sbirciano ma non osano entrare.

La mia casa è la mia casa di Berlino, esattamente com’è, con tutta una parete di finestre, all’undicisemo piano, le pareti scrostrate dalla carta da parati, la luce grigia. C’è solo il letto però: niente divano ad elle con le brasche di sigarette, niente TV nascosta sotto un telo per rispettare il feng-shui, niente quadri di renne con lucine, niente arnesi da cucina, niente fornelli elettrici, neanche il bagno e la cabina armadio. Solo il letto, bianco, gigantesco, morbidissimo con i suoi cassettoni incastonati nella struttura, e le tende, bianche e il parquet, caldo. Nei cassettoni tengo delle piante, quando esco apro completamente i cassettoni, cosicchè possano prendere aria. Mi metto le scarpe, un giaccone, una sciarpa rossa che ho comprato ad un Charity Shop a Londra. Ho solo quei vestiti in casa, non so perchè. Torno indietro ho dimenticato qualcosa: i cassettoni vanno aperti. Li spalanco con forza e annaffio un po’ le piante, esagero come al solito, straborda dell’acqua, ma pulirò dopo. Esco.

Scendo undici piani, pestando forte i piedi, corro per attraversare la strada e dall’altra parte c’è il parco, gigantesco. Sopra passa un treno, che sembra volare. In questo parco c’è un giardino, solo mio, almeno così credo, perchè non ci ho mai visto nessun altro. Prima di varcare la soglia inizio a sentire il collo pungermi dolcemente. Mi prefiguro il tocco del prato, ispiro, chiudo gli occhi per un attimo. Cerco di immaginarmi com’è il giardino, non riesco a ricordarlo, eppure l’avevo guardato poco prima, dalla finestra della mia camera e non ero rimasta sorpresa. Ora ero lì, sull’uscio e non ne ricordavo le forme. Non sentivo alcun odore, alcun rumore. Chiudo gli occhi con più forza, come a voler spingere con forza la porta della mia memoria. Cerco un ricordo autentico, estrapolato dalla mia immaginazione (è lì che vive il mio giardino), ma riesco solo a pensare a luoghi già visti. La mia immaginazione è il mio passato. Non c’è niente’altro.

Non voglio aprire gli occhi perchè so che non vedrò niente, il mio giardino non esiste e anche quando faccio i primi passi verso l’interno non mi pare di schiacciare il prato e i fiori, ma di camminare solo sopra i miei piedi, come se i miei piedi fossero le caviglie e i piedi fossero il terreno. Ho paura e mi inizia a girare la testa, voglio aprire gli occhi ma continuo a non farlo. Voglio sedermi e non riesco a piegare le gambe, continuo a camminare più cautamente. Non sentire nessun rumore mi distruba, mi innervosisce profondamente. Tiro fuori dalla tasca il telefono e le cuffiette, spingo play. Con gli occhi chiusi. Parte 1979 dei Deru. Sono passata dall’odiare il rumore ad odiare il silenzio, in un battito d’ali.

Ritorno dentro la mia mente, cerco di ricordarmi il giardino, inizio ad attingere a falsi ricordi, inizio a costruire intorno a me l’esterno del Sisyphos, la sua barca arenata, i suoi funghi gianteschi, le sue amache, la sua cabina per i massaggi nei giorni d’estate, il suo camioncino Volkswagen senza ruote con gli spacciatori dentro. Ma io non sono lì, e lo so. Non posso essere lì, perchè quel posto esiste. Mi spavento. Cambia musica, credo sia Faith in Strangers di Andy Stott. Ci sono delle parole mischiate all’elettronica, poche, ma ci sono. Mi infastidiscono, la voce è un rumore che m’infastidisce. Cancello il Sisyphos con un’ondata di gesso, torna tutto bianco candido, inodore. Sorrido impercettibilmente. Ma lo percepisco perchè sono proprio io ad aver sorriso, ho tirato un po’ le guance, l’ho sentito. Capisco che non vedrò il giardino se sono nel giardino, o meglio, non riuscirò a vedere il giardino se m’immaginerò di essere nel giardino. Devo guardare il giardino immaginandomi d’essere a casa. Devo immaginarmi il giardino attraverso uno vetro sporco.

Lo vedo finalmente: color seppia. E’ un giardino arido, con un ulivo sulla sinistra, è circondato da un recinto di pietre basse e scure. L’ulivo è secco e giovane, allungo lo sguardo e noto che il giardino è circondato da piante di rosmarino. Profumano. Si estendono finchè il mio occhio vede.

Sotto l’ulivo ci sono io, ho forse dodici anni e sono con una bambina bionda e cicciottella. Io sono anoressica e scurissima, indosso una cavigliera al collo. Io voglio lavorare la terra, piantarci dei bei fiori. E’ tutto color seppia e polveroso. L’altra bambina non vuole sporcarsi, ma mi asseconda comunque un po’ distrattamente. Una voce fuori campo ci dice che la terra è troppo arida per poterla coltivare. Ci dice che stiamo perdendo tempo. Io continuo ad scavare con le mani, un po’ come faceva Rosso Malpelo in quel racconto che avevo letto.

“Selfie” di Federico Maccheroni – Workshop 2016/2017

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Era una gioia ricevere notifiche. Era una gioia speciale vedere la nuvoletta rossa della notifica nascere e gonfiarsi sulla schermata blu della homepage. Anche il suono che l’accompagnava era un’estasi per l’udito, somigliava alle esalazioni che emettono le bollicine di plastica dei fogli da imballaggio quando le scoppi. ‘Pop’. Erano pochi minuti che aveva postato la sua foto e già aveva ricevuto una decina di ‘mi piace’ ognuno accompagnato da una leggera accelerazione del battito che gli faceva martellare il sangue contro le tempie. Guardò il suo riflesso alla finestra e ammiccò a sé stesso compiaciuto, nonostante fosse pieno giorno teneva le tapparelle abbassate per via della luce accecante che rifletteva sullo schermo. Aveva progettato da tempo di cambiare la foto del suo profilo sul social network più famoso del mondo. Era un selfie,un autoritratto scattato con il suo cellulare mentre stava prendendo il sole al mare. La scelta era stata difficile, solo le giuste modifiche alla luce che rendevano la sua pelle perfetta e il suo sorriso più luminoso lo convinsero che era quella giusta. Aggiornò nuovamente la pagina del sito web per vedere se avesse ricevuto nuove notifiche, ma invece che caricarsi, la pagina lo informava che internet era assente. Un senso di stupore misto a fastidio lo colpirono mentre cercava di capire cosa non andasse. Effettivamente la rete wi-fi era saltata. ‘Ho staccato il modem per sostituirlo con quello nuovo!’ gridò suo padre dalla stanza accanto. Immediatamente tirò fuori il suo cellulare ricordandosi solo una volta tentato di connettersi con il dispositivo che aveva terminato i dati della sua connessione. Era una congiura. Suo padre proprio quel giorno aveva dovuto scegliere per cambiare il modem, non capiva quanto fosse importate per lui capire se la foto avesse riscosso successo o meno?  Cominciò nervosamente a rigirarsi il telefono tra le mani, lo sbloccava, scorreva le foto e lo bloccava per poi ricominciare da capo. Non aveva neanche internet per chiedere a qualche amico opinioni sulla foto. Avrebbe potuto usare un messaggio normale ma ormai solo i nonni li usavano e non voleva gravare sui suoi amici facendogli spendere quei 15 centesimi di risposta. Fece un respiro profondo e decise di reagire \cercando di distrarsi. Prese il suo libro di matematica e provò a fare qualche esercizio ma senza successo. Si ritrovava puntualmente senza rendersene conto ad aggiornare la pagina web con la speranza che riprendesse vita. Decise che forse era il caso di uscire, tirò su la serranda per vedere che tempo facesse. Fuori era un pomeriggio assolato e per essere novembre inoltrato faceva caldo. Sotto casa sua si apriva un grande parco circondato da palazzoni costruiti negli anni settanta. La sua attenzione fu catturata da due ragazzi che stavano sdraiati abbracciati tra l’erba alta all’ombra di un albero che aveva le foglie che passavano dal  giallo all’arancio con una strana armonia cromatica che diffondeva un senso di tranquillità. Si concentrò nuovamente sul suo riflesso sul vetro, ora meno definito visto che aveva alzato la persiana. Si studiò il volto, prese il cellulare e lo confrontò con  la foto di lui al mare. Nella foto era più magro, aveva dei colori più chiari e un’espressione innaturale che non era sua. Si domandò se la gente vedendolo per strada lo avrebbe mai associato a quella persona ritratta nella foto se non ci fosse stato il suo nome accanto. Si tastò il volto come usano fare le persone cieche per identificare le persone che hanno di fronte, e cercò di capire quale delle due immagini di sé fosse più veritiera, quale fosse veramente lui. Una luce rossa arancio cominciò a filtrare dalla finestra  e un senso di malinconia lo prese. Non sapeva se fosse per via della consapevolezza del tempo che passava o per via di quel nodo allo stomaco causato da quella incertezza sulla sua identità. Allo stesso tempo però non poteva che restare affascinato dai colori del cielo che sembrava stesse prendendo fuoco. Un suono familiare lo riportò alla realtà. ‘Pop’. Era ripartito internet. Abbassò nuovamente le serrande e tornò ad aggiornare la sua pagina web.

Federico Maccheroni

 

“Anatomia di un corpo nelle varie ore del giorno” di Federica Patanè – Workshop 2016/2017

Era un ragazzo organizzato. Abituato a dare un senso ad ogni ora della giornata. Nemmeno un minuto doveva essere sprecato. E aveva l’abitudine di controllare la vita degli altri, allo stesso modo in cui controllava la propria.

Lei era il suo esatto contrario. Distratta, ipercinetica, ma quel tipo di ipercinetica che di colpo si stanca e si trascina con ebete fascinazione per tutte quelle cose che i più considerano banali, come i bambini. Era matta da legare, per certi versi, non i suoi.

Eppure fingeva. Fingeva per lui una normalità che non le apparteneva.

E lui era per lei come le sagome al poligono, che fanno male solo quando diventano uomini veri.

Il suo corpo cambiava di ora in ora.

Lui la osservava, e ogni volta gli sembrava diversa.

Alle sette di mattina era una bambina.

Allora la lasciava dormire, come si fa con i bambini. Lasciava il letto in punta di piedi, nella luce cerulea della stanza, prendeva delicatamente le chiavi tra pollice ed indice, le sollevava, e il tintinnio che producevano minacciava ogni volta di mettere in moto una serie di eventi inaspettata, ma fortunatamente lei non si svegliava mai.

Saliva in macchina, sistemava lo specchietto retrovisore, sistemava la cravatta, metteva in moto, correva lungo le curve, salutava i semafori.

Aveva il suo lavoro e la sua vita e i suoi viaggi, tre sostantivi intercambiabili.

Nel frattempo lei si svegliava.

Durante la giornata si ricuciva le ferite, ricamandoci sopra anche bellissimi scenari, che puntualmente disfava, e così continuava a scucire i punti e poi nuovamente ricucirli e poi ancora scucirli.

Alle nove di sera era una donna.

Allora lui la portava a cena fuori, per sfoggiarne la bellezza.

<< Facciamo un gioco >> disse lei. << Ogni volta che ci vedremo, ti darò una parte di me. Ovviamente certe parti sono ancora blindate, va da sé che saranno le ultime. Ci stai? >>

<< Non sarà difficile, ricomporre i pezzi, alla fine? >>

<< I tuoi, forse. Non i miei. >>

Poi un giorno pianse, alle due di notte, pianse come una bambina nell’ora in cui era sempre stata una puttana.

Allora lui seppe di aver sbagliato tutto.

Guardò le sue mappe, appese al muro dietro le spalle curve di lei. Tentò di focalizzare i pensieri sul prossimo viaggio che avrebbe organizzato. Ma i confini gli apparivano sfumati, evanescenti nella sua mente.

Per la prima volta si sentiva come straniero in terra di nessuno.

 

“Spacelapse” di Edoardo Santarsiero – Workshop 2016/2017

Capheus corre.

Corre tra i barbershop e le catene di lavanderie che servono tutti i giorni le stesse facce nere e stanche, tra i negozi di liquori ancora vuoti ma che a breve si riempiranno non appena finirà la giornata lavorativa.

Nell’aria si espande un beat martellante, un ritmo tribale che trasla questo piccolo frammento di universo in una diversa dimensione temporale, ci sono due Bronx ora.

Il primo vive giorno dopo giorno tra le grida, le scatarrate dei vecchi niggaz e i gospel delle ragazze svogliate che non vedono l’ora di cambiarsi per dimenarsi al club con le canzoni di Gloria Estefan o Donna Summer.

E poi c’è l’altro Bronx, quello che muore e rinasce ogni istante, dove la metrica trascende le forze della natura alterandole a suo piacimento, dove un uomo misterioso usa il suo dono, il dono di poter controllare il tempo mandando avanti, riavvolgendo e scratchando mentre un esercito di emissari adolescenti diffonde il verbo attraverso le casse di un logoro mangianastri Ghetto Blaster, formulando in preda ad un’estasi mistica delle liriche che esorcizzano paure, esaltano grandezze e millantano vittorie che diventano tangibili nel momento stesso in cui vengono proferite.

Capheus corre.

Attraversa la città a piedi, raggiunge la metropolitana mentre il rosso del tramonto lascia il passo al blu abissale, lui si fonde con esso.

Nessuno lo ferma, nessuno lo riconosce.

È lontano ormai eppure i tamburi riecheggiano nella sua testa mentre si addentra nelle viscere della terra.

L’obiettivo è lei: Manhattan! Lei che non lo aspetta ma lo sfida con quel ghigno al neon, lei che manda i suoi corteggiatori in uniforme blu a ricordargli che “Hey sweetie, I’m out of your league”, lei splendente in maniera uguale e contraria alla sua gal Aisha che forse lo attende a casa stanca non sapendo quando tornerà.

Se tornerà.

Capheus corre.

Vede tutto questo e tace, tace pur di non gridare, i piedi vanno da soli, la testa inserisce il pilota automatico.

Se iniziasse a pensare probabilmente esploderebbe, il silenzio assordante della sua vita lo ucciderebbe.

Non può fermarsi.

Capheus corre.

Manhattan lo accoglie con il suo abito splendente e lo sguardo spento delle modelle di playboy quando sono lontane dagli obiettivi e dalle feste, sorridono accanto a quel bastardo fortunato di Hugh Hefner per poi accigliarsi mentre vagano per la Mansion, trattenendosi però quando si ricordano il perché di tutto questo: i soldi, la “fama” e la possibilità di finire nel letto dell’Axl Rose o del quarterback dei Giants di turno.

Se poi non basta beh, la cocaina fa il resto.

Ma Capheus corre.

Vede i manifesti annunciare che il suo amico, o meglio ex amico, Curtis a breve combatterà per la difesa del titolo di campione dello stato di New York contro il polacco Satsky; altri annunciano che l’uomo conosciuto come K.O.S. si esibirà da qualche parte tra l’Upper East Side e Harlem, qualche pagliacciata per celebrare l’orgoglio nero senza però sporcarsi troppo andando nei quartieri in cui un bianco non entrerebbe mai eh.

Una volta erano suoi amici, prima di trovare la loro via di fuga e diventare qualcuno, prima di cogliere ogni occasione per ricordare “Nevah forget ya roots man, nevah” alla fine di ogni match solo per poi cambiare strada ogni volta che il loro sguardo rischia di incrociarsi con quello Capheus, prima di riempire i propri testi di rabbia e risentimento verso il sistema e la società bianca dalla come  proprio attico a pochi passi da Times Square.

Ma Capheus corre.

È quasi arrivato al suo obiettivo, e sente il brivido lungo la schiena, respira a fondo, tira su la linguetta delle sue Nike-y ormai distrutte e inizia ad arrampicarsi facendo attenzione a non farsi notare, stavolta sta rischiando grosso.

Ma deve farlo.

Le scale a pioli, le pedane, i calcinacci che precipitano dalle impalcature si alternano e scandiscono il tempo mentre le gelide sferzate lo schiaffeggiano in viso, non basta il telone del cantiere a proteggerlo dalle raffiche invernali.

Ma Capheus corre.

È in cima, dall’alto vede la skyline prendere le sembianze di una ragazza che fuma distratta sdraiata su un divanetto, Manhattan sembra quasi implorarlo di nascosto come Bonnie Tyler quando grida “I’m Holding Out For A Hero”.

Ma Capheus non è un eroe.

Dall’alto vede le sagome eleganti camminare rapidamente come formiche impazzite, senza badare a nulla, ma d’altronde non è una novità.

Nessuna notizia quando Frank è stato pugnalato sette volte in un vicolo per il semplice fatto di aver indossato una maglia del colore sbagliato nella zona sbagliata, nessuno si stracciò le vesti quando la sua amica Norah è stata malmenata dagli uomini in divisa convinti che fosse una borseggiatrice.

Capheus è fermo.

Getta un occhio al suolo e capisce come è visto dagli altri, percepito ma non riconoscibile, lo spettro di se stesso ormai, non è riuscito ad accettare passivamente, non è riuscito a fuggire come hanno fatto i suoi “amici”, non è riuscito a continuare a vivere.

Capheus è abbandonato a se stesso.

Da se stesso.

Il tempo scorre e si ferma, scorre e si ferma ad ogni respiro.

Estrae dallo zaino un telone in grado di occupare l’intero volume anche se ripiegato più volte, lo spiega lentamente e lo fissa sull’estremità dell’edificio mostrandolo al pubblico ignaro.

Nonostante la distanza impedisca un contatto visivo o un riscontro auditivo soddisfacente Capheus è sicuro che nessuno se ne sia accorto, mentre l’aria viene spostata dai movimenti dell’oggetto le persone continuano imperterrite a camminare senza alzare gli occhi da terra.

Ma Capheus non se ne stupisce.

Capheus respira forte.

Capheus pensa ad Aisha, sa che lo tradisce.

Capheus pensa ai suoi amici lontani.

Capheus pensa agli amici persi.

Ma Capheus non è il ragazzo con lo stereo di una volta, Capheus ha rotto il ritmo e le parole non coincidono più con la musica.

Capheus salta.

Capheus vola.

Il terreno si avvicina a lui attimo dopo attimo.

Lancia uno sguardo al cantiere, ammirando la sua opera recitare:

Can You See Me Now?

Capheus chiude gli occhi.

Capheus vola.

“Caduta Libera” di Marianna Marzano – Workshop 2016/2017

 “Questa è città è dannatamente bella” pensai. Guardavo Roma dal finestrino con aria sognante e mi sentivo come dentro un film. Una frenata brusca dell’autobus mi riportò alla realtà: ero in ritardo. Scesi velocemente dall’autobus. Sentivo l’adrenalina crescere ad ogni passo: era il grande giorno. Stavo per incontrare un cliente importante, un pezzo grosso: erano mesi che bramavo una promozione e quell’incontro era la mia occasione.

Iniziai a correre. Mi inoltrai in una via a caso sperando di ricordarmi la strada. Con il tipico ed incosciente ottimismo dei ritardatari continuavo a ripetermi che ce l’avrei fatta, che sarei riuscita ad arrivare in tempo. Correvo all’impazzata e la gente per strada mi guardava incuriosita, forse chiedendosi quale fosse il motivo talmente importante in grado di farmi correre in quel modo.

Me lo chiesi anche io. Qual’ era il motivo? Da mesi correvo dietro a quella promozione. La verità è che dovevo a tutti costi dimostrare a me stessa di potercela fare. Lo facevo da sempre: ero sempre alla ricerca di qualcosa da raggiungere per affermarmi, per poter dire di essere qualcuno. La laurea, un concorso, una promozione: ogni volta non era mai abbastanza, ogni volta raggiunto un obiettivo ne trovavo un altro e lo inseguivo con altrettanto affanno. A volte mi sembrava di correre e non arrivare mai. Mi sembrava di inseguire la vita e quando pensavo di averla raggiunta, afferrata, capita, lei invece era già ripartita.

Mi chiesi dov’ero io in tutto questo. Mi chiesi se potevo dire di conoscere davvero quella persona che guardavo ogni mattina allo specchio. Mi chiesi se mi fossi mai fermata ad ascoltare la mia voce, quella vera, quella profonda. La voce dei i desideri, quella che ti sussurra piano cosa vuoi veramente e per ascoltarla devi fermarti un attimo e abbassare il rumore del mondo. Oltre i premi, gli attestati e riconoscimenti, chi ero io? La verità è che per essere qualcuno mi ero dimenticata di essere.

Successe tutto molto velocemente. Persa nei miei pensieri non mi ero accorta del gradino. Mi ritrovai a terra e sentii la sensazione dei sampietrini freddi sul viso.

“Tutto bene, signorina?” un anziano signore mi si avvicinò preoccupato tendendomi una mano.

“Benissimo, grazie!” dissi con finta convinzione mettendomi in piedi. Gli sorrisi forzatamente e lui se ne andò confuso. Mi rialzai in fretta, pronta a proseguire la mia corsa, ma un dolore alla caviglia mi costrinse a fermarmi. Mi appoggiai al muro e mi arresi.

Mi guardai intorno: ero in una piazza piuttosto piccola, al centro c’era una fontana. Non era maestosa né di una bellezza appariscente, ma possedeva una grazia speciale. La base era composta di conchiglie, mentre degli angeli sorreggevano la vasca contornata da piccole tartarughe. Sentivo nel silenzio il rumore dell’acqua che sgorgava veloce. Mi resi conto di non aver la più pallida idea di dove fossi, nonostante conoscessi piuttosto bene quella zona.

Improvvisamente un profumò mi rapì. Mi lasciai trasportare da quell’ odore inebriante e mille ricordi riaffiorarono nella mia mente. “Cornetti appena fatti” pensai sorridendo tra me e me. Il mio sguardò si posò sulla visuale della piazza. Vidi le persone affrettarsi per cominciare la loro giornata: mi divertii ad immaginare le loro vite, ipotizzare su dove fossero diretti e se ci fosse qualcuno ad aspettarli. Vidi un barbone avvicinarsi alla spazzatura alla ricerca della sua colazione. Una giovane ragazza con un passeggino mi passò accanto. Guardai al suo interno e incrociai lo sguardo di un bambino. Mi fissò intensamente, come solo i bambini sanno fare. Mi guardò fino in fondo senza paura, senza maschere, senza protezioni. Mi fissò con un’intensità tale che mi sentii come se mi potesse leggere dentro. Mi sentii come se quello sguardo mi stesse restituendo qualcosa che avevo perso.

Immaginai che il mio cliente fosse ormai andato via da un pezzo, ma non mi importava. Era una meravigliosa mattina di novembre. L’aria era frizzante e mi stuzzicava la pelle. Una luce dorata illuminava i palazzi rendendoli vivi e sensuali. Chiusi gli occhi e sentii il tepore caldo del sole sulla pelle. Mi ricordai di essere, e di esserci.

All’improvviso mi tornò in mente quella frase: “E’ il viaggio che conta, non la destinazione”. Respirai forte e l’aria fredda mi entrò nei polmoni. Mi sentii viva. “Buon viaggio” augurai a me stessa.

 

 

Marianna Marzano

 

“Foglio bianco” di Margherita Curti – Workshop 2016/2017

Il vento, pungente, sferzava il piccolo viso tondo di Lea, che imperterrita ignorava gli avvertimenti della madre e continuava a sporgere la testa dalla ringhiera gelida. La madre la reggeva con forza per un braccio, tirandola a sé e ripetendole: “Non guardare giù!”, come se Lea avesse paura del vuoto, dell’altezza, o dell’oceano nero come la pece che ruggiva contro le pareti della nave. Ma Lea non aveva paura di tutto questo, e perciò continuava a guardare giù piena di curiosità. Suo padre probabilmente non si sarebbe preoccupato tanto, ma del resto Lea non ne era più tanto sicura. Non lo vedeva da più di un anno, ormai, ma la mamma diceva sempre a lei e a Michael che prima o poi lo avrebbero raggiunto “dall’altra parte”. Lea aveva dovuto salutare tutte le amiche a scuola dicendo loro che non sapeva quando sarebbe tornata, e ricordava perfettamente lo sguardo strano che le aveva rivolto la maestra quando se n’era andata, come se sapesse benissimo dove erano diretti lei, la madre e il fratello e capisse perfettamente la situazione. In realtà, sembrava anche che sapesse qualcosa che Lea ignorava, ma la bambina non si era fatta troppe domande. “Su, scostati dalla ringhiera. Andiamo a vedere dove diamine si è cacciato tuo fratello.”, disse improvvisamente la madre, parlando in yiddish e tirandola via con sé. Lea la seguì controvoglia lungo il ponte della nave, dove decine di uomini e donne se ne stavano appoggiati al bordo, a guardare l’oceano e l’orizzonte che, quasi spaventoso, si estendeva, vuoto, a ogni lato della nave. Scivolando di tanto in tanto sul legno bagnato, Lea urtava senza volerlo alcuni di loro, che le rivolgevano uno sguardo infastidito per poi tornare a ignorarla e a guardare lontano.

La madre di Lea mollò improvvisamente la presa sul suo braccio per correre dietro a una scialuppa, dove Michael si era nascosto per tirare sassolini al di là della ringhiera.  “Oyfhem! Oyfhem, shmo!” iniziò a gridare, incurante degli sguardi curiosi degli altri passeggeri, tirando il figlio per un braccio e portandolo in un angolo per sgridarlo come si deve. Sembrava quasi di stare a casa, a Varsavia, quando  dopo cena Michael veniva privato della sua porzione di lekach come punizione per aver marinato la scuola, ed era costretto a salire in camera sua senza fiatare, mentre Lea mangiava la sua fetta di torta al miele con uno strano senso di colpa.

Ad un tratto, Lea si accorse che una bambina con gli occhi chiari la stava guardando con insistenza da chissà quanto tempo. Era seduta su una panca di legno, lì sul ponte, e si reggeva ai bordi come terrorizzata all’idea di scendere e avvicinarsi al parapetto.

“Ciao! Vuoi venire a giocare con me?” le chiese Lea, parlando tedesco.  Qualcosa le diceva che la bambina avrebbe capito; forse, il fatto che le ricordava la sua amica Anastazia, con quei capelli biondi un po’ arruffati, e quell’aria guardinga e sospettosa. La bambina continuò a fissare Lea, come riflettendo se valesse la pena o meno risponderle. “No. Mia mamma non vuole che mi allontani dalla panchina. Dice che cadrò in acqua e lei andrà a New York senza di me.”, rispose lentamente, in tedesco. “Capisco.”, disse Lea senza nascondere la sua delusione. La bambina la squadrava in silenzio. “Che strani i tuoi capelli, chi te li ha pettinati cosi?”, le chiese improvvisamente. Lea si toccò le trecce castane. “Queste me le fa mia madre. Dice che una bambina come me deve portare le trecce.” “Come te? Che vuol dire come te?” Lea tacque un attimo, presa in contropiede. “Come me e basta!” replicò un po’ indispettita. Poi saltò a sedere sulla panchina, accanto alla bambina bionda. “Sei contenta di andare a New York?” le chiese, indicando con un cenno del capo l’orizzonte sconfinato. “No! La odio, la odio, la odio! Volevo restare a casa e andare a scuola lì con le mie amiche. Non conosco nessuno a New York.”. Lea sussultò, ricordandosi di colpo che neanche lei conosceva nessuno, e che non sapeva quando avrebbe rivisto Anastazia e le altre bambine. “E da dove vieni?” chiese Lea. “Dresda.”, rispose la bambina bionda con una punta di malinconia. “Io li odio, i miei genitori. Mi hanno portato via tutto. Adesso non ho più niente.”, aggiunse. Lea avvertiva sempre di più il peso delle sue parole. E lei? Che cosa aveva lei, ora? La madre aveva costretto lei e Michael a buttare via praticamente tutti i giocattoli che avevano, perché non potevano portarli via in valigia. L’aveva costretta a lasciare a Varsavia molti dei suoi abiti, che erano stati regalati a una cugina lontana perché a New York le bambine si vestono diversamente, e Lea avrebbe dato troppo nell’occhio. Probabilmente a New York non avrebbe trovato delle amiche con cui parlare in yiddish, né tantomeno in tedesco. Nessuna lingua, nessun vestito, nessun giocattolo. Nessun’amica. E allora cosa le restava?

Di colpo Lea avvertì un moto di rabbia verso sua madre per aver trasformato lei e Michael in due nullità, due pupazzi vuoti, due fogli bianchi, cancellando tutto.

Improvvisamente, l’oceano che circondava la nave e dal quale prima si sentiva cullata le sembrò minaccioso, profondo e sconosciuto. L’orizzonte, così libero e vuoto, come una linea tracciata con un righello, le apparve assurdo e desiderò intensamente vedervi apparire un qualsiasi oggetto, un’isola, la sagoma di un’altra nave, una catena montuosa, qualsiasi cosa che potesse spezzare quella riga. La bambina bionda, che non si curava di lei e continuava a reggersi al bordo della panchina, le sembrò un foglio bianco, un contenitore vuoto, e la nave le apparve improvvisamente carica di contenitori vuoti come lei, pronti ad essere trasportati dove qualcuno li avrebbe riempiti di nuovo. Lea sentì la testa girare, e le gambe estremamente pesanti. Saltò giù dalla panchina e iniziò a correre sul ponte, e quando trovò un punto libero sul parapetto dove potersi aggrappare si accovacciò, poggiando la fronte sulla ringhiera gelata. Rimase per qualche minuto a fissare il riflesso del suo occhio sul metallo lucido, sentendosi stranamente più calma. Si aggiustò sulle spalle le trecce castane, reggendosi fermamente alla ringhiera. Si allisciò la gonna grigia, mise una mano nella tasca del cappotto e tastò un piccolo bottone dimenticato, che si era staccato chissà quanto tempo prima da una delle sue camicette. Ispirò profondamente cercando di ricordare la camicetta, e in che occasione l’avesse indossata, e i complimenti che le avevano fatto le sue amiche a scuola. Le gambe non erano più tanto pesanti, e l’orizzonte non sembrava più così assurdo e vuoto. Le venne quasi da sorridere rendendosi conto che non era affatto una nullità, né tantomeno un foglio bianco.

“All’apparir del vero” di Ludovica Esposito – Workshop 2016/2017

È già un mese che il circo è arrivato in città, eppure anche oggi è affollato come quel primo giorno in cui ha attirato frotte di visitatori incuriositi da tutti quei manifesti affissi in giro e desiderosi di scoprire la novità che portava con sé.

Lo spettacolo principale tenuto nell’imponente tendone centrale con gli spericolati acrobati che sfidano la gravità in esibizioni volanti non è ancora iniziato, ma la gente si è anticipata perché anche all’esterno c’è sempre qualcosa da vedere: grandi e piccini sono attratti dai mille colori e profumi che inondano lo spazio recintato in cui è stato autorizzato l’allestimento del circo.

Tutti restano a bocca aperta davanti ai selvaggi animali africani, i possenti leoni signori della savana, o alle misteriose tigri bianche, felini in via di estinzione che non sarebbe possibile vedere senza un viaggio in un altro continente. I visitatori li guardano ammirati anche se si limitano a stare distesi e sonnecchiare, si ammassano intorno ai loro recinti e sostano troppo a lungo accanto alle loro gabbie levando esclamazioni stupite quando una delle belve muove la coda per scacciare le fastidiose mosche che le ronzano intorno.

I pagliacci dai buffi costumi colorati si aggirano tra la folla, i bambini scoppiano a piangere al loro passaggio e i genitori cedono a comprare dello zucchero filato per farli smettere, perché dopotutto è una giornata di festa e possono fare uno strappo alla ferrea regola del non esagerare con i dolci.

E poi c’è la casa degli specchi. Le persone entrano e ammirano i propri riflessi, si divertono a vedersi più alte, più basse, più magre, più grasse. Scattano foto per ricordare quel nuovo momentaneo aspetto diverso e poi mostrarlo agli amici rimasti a casa che magari convinceranno a venire a vedere dal vivo il prossimo fine settimana, se il circo sarà ancora lì.

Qualcuno nota un tremolio nel proprio riflesso, ma dura meno di un battito di ciglia e crede di averlo immaginato, così lo ignora e torna a scherzare con i compagni.

Le risate vengono d’un tratto interrotte da una voce all’interfono che chiede ai gentili ospiti di dirigersi con calma all’uscita; i visitatori sono tardi a reagire e la scossa successiva alla prima che quasi nessuno aveva sentito li coglie impreparati. Quella seguente è ancora più forte; le persone si accalcano verso l’uscita. Qualcuno urla. Qualcuno cade.

Uno specchio va in pezzi.

“Ho vissuto tante vite” di Olga Piro – Workshop 2015/2016 (foto di Anna di Prospero)

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Ho vissuto tante vite ma la storia è sempre la stessa: devo rubare del tempo per me. Ne ho così poco che anche per raccontare questa storia, devo estraniarmi di notte dalla vita quotidiana.

Quella che immaginavo fosse la calma, in un angolo remoto, idealista della mia mente, non esiste nella realtà. Io, almeno, posso trovarla solo nella solitudine.

Quando ero bambina, passavo le ore sul letto ad immaginare la mia fantastica vita e quello era il mio gioco preferito.

La mia infanzia non è stata delle migliori, per quanto al mondo ve ne siano sicuramente di peggio.

Pensavo allora che avrei dimostrato a tutti quelli che mi facevano male quanto sarei stata in gamba da adulta.

Volevo diventare una piratessa, un poeta, un condottiero, una spadaccina. Volevo essere un filosofo, un politico e un medico. Sfidando i malvagi, avrei trovato la verità e protetto quelli che amavo.

Non sapevo precisamente questi sogni a quale occupazione sarebbero corrisposti.

Allora io non ero niente ed ero tutto.

Io stavo lì e immaginavo – e leggevo molto per immaginare meglio.

Altre volte, dicevo di studiare ma vagavo per la casa e mi stendevo su di un letto, il mio o quello dei miei, a pensare.

Credo che un letto sia come una barca, le cui fiancate solcano gli abissi dell’animo umano.

Di notte, confesso fino a pochi anni fa, per me al di là del letto c’erano tutte le mie paure. Il pavimento ai miei piedi era un luogo ignoto, solcato da creature nascoste che attendevano che mi assopissi.

Ben diverso era di giorno. Lo è sempre stato, perché di giorno il mio letto è stato il veliero del mio animo. Ho partorito i miei disegni ed affrontato le mie paure, ho pianto chi amavo ed andava via, sono rimasta tenacemente legata al pensiero di coloro che restavano con me.

Capisco ora quei grandi uomini che vivevano nel loro letto, come Proust  o Leibniz, che   quando poteva vi lavorava.

Ma io, molto semplicemente, guardavo dalla finestra fondersi il cielo alla notte. Io immaginavo il soffitto tendersi e partorire il varco che dava all’infinito.

O vedevo le maree dischiudersi al passaggio di un vascello che era il mio slancio verso nuove terre.

O ancora  mi contentavo, invece, di osservare la vita svolgersi di fuori e mi immaginavo correre, correre in un modo allegro, che non potevo fare da sveglia nei giorni peggiori.

E quindi una forza mi attraversava. Vedevo chi volevo essere, la bambina che correva nel sole, la donna che conquistava la sua vita pezzo dopo pezzo. Un giorno, finalmente ebbi il coraggio di solcare quelle vie e camminai mentre mutavano in altre, che non conoscevo. Andai lontano da casa, dal quel letto di bambina e dalla mia finestra. Trascorsero gli anni in Cina, in Africa, in Europa, con lembi di cielo e il mare di tanti paesi diversi.

Ma sempre simile al mio mare interiore, vivido come la forza che raccoglievo immaginando, immenso come il coraggio che ci dona la solitudine.

Ancora oggi dal mio letto il mondo si dispiega. Esso è come una pagina eterna che si srotola, a cui il mio cuore detta il suo divenire.

Esercizio creativo del Workshop di Storytelling tenuto dalla docente Valentina Faloni, in collaborazione con la fotografa Anna di Prospero

“Bonfire Heart” di Federica Fioravanti – Workshop 2015/2016

L e F.

Ricontrollare ossessivamente, quasi, la posizione delle cuffiette prima di metterle era un vizio.

Portone chiuso, play.

Da quando quella canzone era uscita Alex non smetteva di ascoltarla, soprattutto la mattina, quando aveva 10 minuti di camminata, per pensare a ciò che voleva, prima di arrivare in università.

“Days like these lead to, nights like this leads to, love like ours you light the spark in my bonfire heart..” . Non aveva ancora fatto i conti con l’inglese che quella canzone, già solo ad ascoltarla, le rievocava qualcosa, qualcuno, automaticamente e quindi come una droga: repeat. Bonfire heart. Già, quella fiamma che non si spegne mai neppure affogandola. Quell’incendio nel cuore che brucia, anche dopo averlo spento, che riaffiora piccolo piccolo, ma con ardore, dalla cenere.

<< Buongiorno signorina, scusi, il tesserino >>

Fece per tornare indietro e si tolse le cuffiette.

<< Scusi lei, ero distratta, eccolo qui >>

<< Perfetto! Grazie mille e buona giornata >>

<< A lei. >>

Ripose tutto in borsa, in un gesto disordinato e prima di entrare in aula lo fece. Prese di nuovo il telefono, si guardò intorno come a controllare che non ci fosse nessuno pronto a dirle che stava sbagliando, come a controllare che non ci fossero testimoni e le scrisse:“ Tutte le mattine per andare in università ascolto Bonfire heart  e ti penso. Tutte le mattine, ascoltando quella canzone vorrei scriverti un milione di cose, sapere della tua vita nuova in America, ascoltare i tuoi racconti, le tue esperienze, le tue malinconie, le tue soddisfazioni e i tuoi progetti. Ma ogni volta ti penso solo. Penso a quanto ci siamo persi, a quanto ci siamo dati e tolti. Penso a quanto io ti ammiri per ogni cosa che hai voluto e ottenuto senza sbagliare mai e ti stimo, come ho sempre fatto. Ti scrivo perché volevo semplicemente dirti che, nonostante non ci sentiamo da mesi, c’è un pensiero che parla di te in me sempre e che quella canzone mi lega a te con così naturalezza che sembra scritta da noi. È una finestra sulla nostra vita e ascoltarla è come averti qui per 3 minuti e 40 secondi. Ti ho scritto perché domani mattina quando sentirò quella canzone ti penserò ma con un sorriso in più, sapendo che dall’altra parte del mondo, quando anche tu l’ascoterai penserai a quanto io sia sempre la tua solita mascherina. Buonanotte, Alex.”

Fece un bel respiro, una mano sulla maniglia della porta. Invia.

Entrare in quell’aula, adesso, sembrava la cosa più anormale del mondo. Paradossale tornare alla realtà, prendere posto e ascoltare attivamente la lezione mentre dentro una nube scintillante si animava come il fungo di una bomba atomica.

Che infondo quella era scoppiata!

<< Ciao Alex, sono James…>>

<< Jim, sono le 3 di notte, che succede?>>

<< Si lo so, ma sto facendo una cazzata forse e..beh sei il mio migliore amico no? Domani ho un esame e invece sto prendendo un aereo, per Roma. Devo vederla. Coprimi con Annie. Ti porto un souvenir…  >>

<< Che cos..??  Figlio di putt.. ha riagganciato! Al diavolo James..>>

James lascio cadere il telefono in tasca quasi come fosse una liberazione e mentre prendeva posto sul volo 714 New York- Roma, gli arrivò il messaggio, da Alex. Non il suo migliore amico, che l’aveva appena insultato. Da lei, da quella che non riusciva a smettere di pensare da giorni o, forse, da mai. Dalla ragazza che pur non sapendo della sua follia non aveva resistito a farne un’altra, seppur più piccola, scrivendogli.

“Qualunque dispositivo acceso venga spento ora, stiamo per partire, signori”.

<< Chiunque sia, può attendere. Leggerò all’arrivo >>

Intanto a Roma  il cielo andava ad imbrunire e anche Alex. Una giornata completamente paralizzante, una giornata che esplosa come una bomba terminava dentro una bolla.

<< Non imparerò mai. >>

E proprio mentre stava chiudendo il messaggio, che aveva riaperto per la milionesima volta, una risposta disarmante – “ E pensare che non ti pensavo da tanto. E pensare che qualche notte fa ti ho sognata. E pensare che, da quella notte in poi, non mi esci dalla testa. E pensare che ho sperato che tu te ne accorgessi, come per magia. E pensare che te ne sei accorta. E pensare che, anche dall’altra parte del mondo, non esiste una sola giornata di sole invernale, di quei soli che non scaldano né la pelle né tanto meno l’anima, che il mio cuore non si infiammi al tuo ricordo. E pensare che ancora non ho dimenticato il tuo profumo. E pensare che nemmeno sapevo esistesse quella canzone prima di ora. E pensare che riesci ancora, come sempre, a stupirmi. E pensare che siamo gli stessi, non siamo cambiati di una virgola, ancora vicini, anche se ogni volta più distanti. E pensare che fremevo per scriverti, ma non ne trovavo il coraggio. E pensare che, stavolta, sei stata tu a battermi sul tempo, sei stata quella più coraggiosa, anche se solo di qualche ora. Dove sei?”

Il cuore tornava a battere così forte che Alex pensava di bruciare e di spaccarlo per la forza dell’impatto. Anche solo di qualche ora? Dove sei?. Non poteva voler dire quello che sperava ardentemente e insieme con paura. Non poteva essere lì, ora. Non era umanamente possibile la telepatia ma il destino, quello, forse sì.

<< Sto scendendo giù, al mare..ne ho bisogno. Tu? >>

Passò un’altra ora e arrivata al suo rifugio segreto, prima di sedersi e beneficiare della quiete che solo quel posto sapeva regalarle Alex spense il telefono. Perché va sempre così, alla fine.

Dall’angolo della strada poco distante da lei una voce familiare ruppe il silenzio. Quella voce che avrebbe riconosciuto anche da sorda :

<< E pensare che sono qui nonostante domani abbia un esame, nonostante abbia tutta la mia vita domani, in un luogo che non è casa e non è Te. E pensare che ho comprato il volo due giorni fa e ho letto il tuo messaggio solo dopo essere atterrato. >>

Si avvicinava con la sua solita camminata veloce, pronta, sicura. Con il suo solito sorriso deciso e gli occhi che ti squarciano dentro.

<< E pensare a quante cose ci siamo detti quella sera, di ormai 4 anni fa, e a quante ce ne siamo dette dopo, e a quante non ci siamo detti perché non ce n’era bisogno. E pensare che ti avevo detto addio. E pensare che ti avevo chiesto, se fossi andata lontano, che non fosse troppo fuori mano o di trovare un posto irraggiungibile; alla fine me ne sono andato io, prima non troppo fuori mano, poi in un posto irraggiungibile, e non è servito a nulla. E pensare che sono rimasto a guardarti per veramente tanto tempo, cercando una strada per farti mia, e..>>

Era arrivato. Ad un centrimetro dai suoi occhi, labbra contro labbra. I loro ricci si intrecciavano così perfettamente e il tramonto, appena iniziato, donava un colore così omogeneo che sembravano un’unica entità, un’unica fiamma, vorticosa.

Alex lo guardò, piegò leggermente il collo e pose la sua mano sulla sua bocca. Lo zittì così, perché tutto ciò di cui avevano bisogno ora era il silenzio. Ciò che parlava ora era il loro respiro, i loro cuori che all’unisono battevano così forte da generare calore. Come una grande fiamma, silenziosa e ardente.

Alex chiuse gli occhi e lo strinse forte a sé, senza avere il coraggio di togliere la mano dalle sue labbra.

James chiuse gli occhi, respirò a fondo, cercando di rapire tutto il suo profumo da quell’angolo di collo per portarlo via con se, sempre e ovunque.

Non ebbero il coraggio di staccarsi, non ebbero la forza di spegnersi.