Io non sono un giardino, ma una casa che da su di un giardino. Questo perché non vorrei mai vivere dentro di me ogni momento della mia vita, vorrei potermene andare e osservarmi da fuori, esitare sull’uscio e lasciare le erbaccie crescere per un po’. Dalla finestra della mia casa vedo il mio giardino, ne vedo gli insetti e le piante, gli animali notturni e quelli diurni, i passanti che sbirciano ma non osano entrare.
La mia casa è la mia casa di Berlino, esattamente com’è, con tutta una parete di finestre, all’undicisemo piano, le pareti scrostrate dalla carta da parati, la luce grigia. C’è solo il letto però: niente divano ad elle con le brasche di sigarette, niente TV nascosta sotto un telo per rispettare il feng-shui, niente quadri di renne con lucine, niente arnesi da cucina, niente fornelli elettrici, neanche il bagno e la cabina armadio. Solo il letto, bianco, gigantesco, morbidissimo con i suoi cassettoni incastonati nella struttura, e le tende, bianche e il parquet, caldo. Nei cassettoni tengo delle piante, quando esco apro completamente i cassettoni, cosicchè possano prendere aria. Mi metto le scarpe, un giaccone, una sciarpa rossa che ho comprato ad un Charity Shop a Londra. Ho solo quei vestiti in casa, non so perchè. Torno indietro ho dimenticato qualcosa: i cassettoni vanno aperti. Li spalanco con forza e annaffio un po’ le piante, esagero come al solito, straborda dell’acqua, ma pulirò dopo. Esco.
Scendo undici piani, pestando forte i piedi, corro per attraversare la strada e dall’altra parte c’è il parco, gigantesco. Sopra passa un treno, che sembra volare. In questo parco c’è un giardino, solo mio, almeno così credo, perchè non ci ho mai visto nessun altro. Prima di varcare la soglia inizio a sentire il collo pungermi dolcemente. Mi prefiguro il tocco del prato, ispiro, chiudo gli occhi per un attimo. Cerco di immaginarmi com’è il giardino, non riesco a ricordarlo, eppure l’avevo guardato poco prima, dalla finestra della mia camera e non ero rimasta sorpresa. Ora ero lì, sull’uscio e non ne ricordavo le forme. Non sentivo alcun odore, alcun rumore. Chiudo gli occhi con più forza, come a voler spingere con forza la porta della mia memoria. Cerco un ricordo autentico, estrapolato dalla mia immaginazione (è lì che vive il mio giardino), ma riesco solo a pensare a luoghi già visti. La mia immaginazione è il mio passato. Non c’è niente’altro.
Non voglio aprire gli occhi perchè so che non vedrò niente, il mio giardino non esiste e anche quando faccio i primi passi verso l’interno non mi pare di schiacciare il prato e i fiori, ma di camminare solo sopra i miei piedi, come se i miei piedi fossero le caviglie e i piedi fossero il terreno. Ho paura e mi inizia a girare la testa, voglio aprire gli occhi ma continuo a non farlo. Voglio sedermi e non riesco a piegare le gambe, continuo a camminare più cautamente. Non sentire nessun rumore mi distruba, mi innervosisce profondamente. Tiro fuori dalla tasca il telefono e le cuffiette, spingo play. Con gli occhi chiusi. Parte 1979 dei Deru. Sono passata dall’odiare il rumore ad odiare il silenzio, in un battito d’ali.
Ritorno dentro la mia mente, cerco di ricordarmi il giardino, inizio ad attingere a falsi ricordi, inizio a costruire intorno a me l’esterno del Sisyphos, la sua barca arenata, i suoi funghi gianteschi, le sue amache, la sua cabina per i massaggi nei giorni d’estate, il suo camioncino Volkswagen senza ruote con gli spacciatori dentro. Ma io non sono lì, e lo so. Non posso essere lì, perchè quel posto esiste. Mi spavento. Cambia musica, credo sia Faith in Strangers di Andy Stott. Ci sono delle parole mischiate all’elettronica, poche, ma ci sono. Mi infastidiscono, la voce è un rumore che m’infastidisce. Cancello il Sisyphos con un’ondata di gesso, torna tutto bianco candido, inodore. Sorrido impercettibilmente. Ma lo percepisco perchè sono proprio io ad aver sorriso, ho tirato un po’ le guance, l’ho sentito. Capisco che non vedrò il giardino se sono nel giardino, o meglio, non riuscirò a vedere il giardino se m’immaginerò di essere nel giardino. Devo guardare il giardino immaginandomi d’essere a casa. Devo immaginarmi il giardino attraverso uno vetro sporco.
Lo vedo finalmente: color seppia. E’ un giardino arido, con un ulivo sulla sinistra, è circondato da un recinto di pietre basse e scure. L’ulivo è secco e giovane, allungo lo sguardo e noto che il giardino è circondato da piante di rosmarino. Profumano. Si estendono finchè il mio occhio vede.
Sotto l’ulivo ci sono io, ho forse dodici anni e sono con una bambina bionda e cicciottella. Io sono anoressica e scurissima, indosso una cavigliera al collo. Io voglio lavorare la terra, piantarci dei bei fiori. E’ tutto color seppia e polveroso. L’altra bambina non vuole sporcarsi, ma mi asseconda comunque un po’ distrattamente. Una voce fuori campo ci dice che la terra è troppo arida per poterla coltivare. Ci dice che stiamo perdendo tempo. Io continuo ad scavare con le mani, un po’ come faceva Rosso Malpelo in quel racconto che avevo letto.